Tolkien mette in guardia dall’artista che della sua opera fa un idolo. La strada la indica Michelangelo: riconoscere la bellezza ricevuta da Dio (4)

Torniamo a Tolkien e allo “Spirito di Fuoco”: dove si colloca la Caduta, di cui così tragicamente subiamo gli effetti? Il peccato intacca non il momento creativo, ma quello successivo, quando ci viene detto che “…il cuore di Fëanor era legato a doppio filo a quelle cose da lui stesso prodotte”.

L’attaccarsi all’opera delle proprie mani è distruttivo della persona: confrontiamo per esempio l’altro grande artefice, Sauron, detto appunto il “Signore degli Anelli”, che crea oggetti che gli servano per asservire altre creature, ma viene da questi oggetti egli stesso asservito. Il padrone non è meno schiavo del suo schiavo, direbbe Berdjaev, perché senza lo schiavo cesserebbe di essere padrone: essi sono legati a “doppio filo” (Nikolaj Berdjaev, Schiavitù e libertà dell’uomo, Bompiani, 2010).



Tolkien, in una lettera appassionata al proprio editore Milton Waldman del 1951, così si esprime a riguardo: “[…] tutto questo materiale riguarda principalmente la Caduta, la Mortalità e la Macchina. Inevitabilmente la Caduta, e questo è un tema che ricorre in molti modi. Ricorre nella Mortalità, specialmente nei condizionamenti che essa esercita sull’arte e sull’aspirazione creativa (o sarebbe meglio dicessi, sub-creativa), […] quest’aspirazione si sposta con un amore appassionato per il mondo reale primario che la ricolma del senso della mortalità e che pure però la rende insoddisfatta. La ‘Caduta’ può manifestarsi in vari modi. Può assumere, per esempio, il tratto della possessività: abbarbicandosi alle cose fatte ‘da sé’, il subcreatore desidera in questo caso essere Signore e Dio della propria creazione privata. Si ribellerà quindi alle leggi del Creatore, specialmente alla mortalità. Queste cose (da sole e assieme) produrranno allora il desiderio del Potere, il quale mira a rendere la volontà più rapida ed efficace, e dunque condurranno alla Macchina (vale a dire alla Magia)”.



In positivo, Tolkien distingue in modo interessante la Magia dalla genuina trasformazione della materia: “[…] il suo scopo è precipuamente l’Arte, non il Potere, la subcreazione, non la dominazione e il rifacimento tirannico della Creazione. […] invece il Nemico è sempre ‘naturalmente’ preoccupato del puro Dominio, e dunque è Signore della Magia e delle Macchine”.

Cosa occorre allora per non attaccarsi all’opera delle proprie mani, inorgoglirsi e perdere la bellezza cui pure si è cercato di rendere omaggio?

Lasciamo a Michelangelo la conclusione:

Giunto è già ’l corso della vita mia,/ con tempestoso mar, per fragil barca,/ al comun porto, ov’a render si varca/ conto e ragion d’ogni opra trista e pia./ Onde l’affettüosa fantasia/ che l’arte mi fece idol e monarca/ conosco or ben com’era d’error carca/ e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia./ Gli amorosi pensier, già vani e lieti,/ che fien or, s’a duo morte m’avvicino? D’una so ’l certo, e l’altra mi minaccia./ (Rima 285)/ Né pinger né scolpir fie più che quieti/ l’anima, volta a quell’amor divino/ c’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia.



Occorre – suggerisce il genio toscano – aprirsi all’amore divino, per non sprofondare carichi d’errore, spinti dalla fantasia che immagina di esser “monarca” (monos-archein, un solo principio, mentre l’autentica creatività generatrice vede sempre almeno due attori). Occorre non farsi “idol”, non fabbricare qualcosa che è solo immagine vuota (Achille, Ulisse… quanti eroi provarono a stringere nelle braccia l’eidolon dei propri cari Patroclo e Anticlea, abbracciando infine solo se stessi?) Occorre allora continuare come si è iniziato: volgendosi grati a Colui che da sempre e in ogni momento “aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia”.

(4 – fine)

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