Michelangelo ha vissuto il dramma della creazione artistica fino al suo centro, quell'impeto che ci fa desiderare di "essere come Dio" (1)

Nel 2025 sono 550 anni dalla sua nascita. Michelangelo (1475-1564) è stato visto come un genio titanico: un uomo capace di creare da solo opere di immane vastità e bellezza come nessun altro prima di lui, riuscendo dove altri avevano fallito, rifiutando gli aiuti, oltraggiando i committenti e opponendosi ad essi in nome della propria autonomia assoluta di artista.



Potrebbe sembrare l’uomo che incarna l’ideale rinascimentale del divo, dell’uomo che eccelle, affermando se stesso a discapito e contro la realtà. Contro la forza di gravità, contro la pietra, contro il tempo, contro il proprio corpo, contro Bramante, contro Raffaello, contro il Papa. Eppure ci sembra di vedere un più profondo strato della sua esperienza che dice di un uomo che ha vissuto il dramma della creazione artistica fino al suo nocciolo, cioè di quel particolare impeto che ci fa desiderare di “essere come Dio”.



In che senso questo desiderio è legittimabile? Si autogiustifica per bellezza delle opere, si dirà? Ma come nascono bellezza e grandezza in un’opera d’arte? Affermando sé o affermando qualcosa d’altro? Contrapponendosi o obbedendo? E a che consapevolezza conduce, nell’animo di un vero artista, la grandezza dei propri accomplishments: all’orgoglio o all’umiltà? Quali fattori entrano in gioco?

Il presente articolo vuole tentare di mettere in campo alcune di queste domande provando ad annodarle alle riflessioni sulla creatività di un altro genio “fabbricatore di mondi” quale è stato J.R.R. Tolkien, che sarà qui convocato in quanto artista che riflette sulla propria esperienza, al pari del genio fiorentino. Avendo Tolkien a più riprese, in lettere e conferenze, esposto l’idea che il tema-base delle sue opere sia la creatività, il dramma del creare, lo abbiamo ritenuto un interlocutore assai adatto per lo scultore italiano, con cui cercheremo di dialogare in uno scenario immaginario.



Nello spazio di un articolo mi rendo conto che non si possono affrontare le complessità delle vicende evocate, pertanto, al fine di guadagnare spazio, ricorreremo a un resoconto dettagliato solamente di quelle vicende che non sono di dominio comune: essendo l’intendimento non portare alla luce fatti nuovi, ma leggere in modo nuovo i fatti che tutti conoscono.

Michelangelo e la (s)volta della Sistina

La commissione per la Cappella Sistina rappresenta la vera svolta nella vita e nella carriera artistica di Michelangelo. Ma prima di affrontare il dramma che essa comportò, diamo uno sguardo ad alcune tematiche che il Buonarroti aveva affrontato.

Tra tutte, spicca il tema della lotta. Michelangelo predilige i corpi in lotta, in torsione e tensione, a cominciare dal piccolo erculeo Gesù che nella Madonna della Scala ci gira le spalle torcendosi verso il seno materno, fino alla Battaglia dei Centauri, al David, simbolo della libertà che si contrappone alla forza bruta e superba di Golia, emblema di tutte le tirannie prepotenti; al busto di Bruto, anch’egli uccisore di tiranni finanche quando si trattò del proprio padre adottivo, Cesare.

La Repubblica fiorentina era orgogliosa della propria libertà e autonomia contro regni e tiranni, e Michelangelo non esitò – nel momento della chiamata – a mettersi contro i Medici (tra i quali il Magnifico gli era stato quasi un secondo padre e mentore artistico). Orgogliosamente fiorentino anche il Sommo Poeta – che Michelangelo sempre amò – che pose il suicida Catone a custode del Purgatorio, poiché la libertà è cosa “così cara” che si può essere disposti a morire pur di non perderla.

Michelangelo, da buon fiorentino, certamente amava la libertà. Quando il 14 ottobre 1529 iniziò l’assedio di Firenze da parte delle truppe di Carlo V, che voleva usarla come merce di scambio per riconciliarsi con il Papa Clemente VII de’ Medici, i fiorentini si ribellarono al papato e cacciarono i Medici dalla città. Michelangelo si adoperò lavorando a velocità quadrupla nel rafforzare le fortificazioni (facendo perfino appendere tutte le materasse di Firenze davanti alle mura per assorbire i colpi dei cannoni prima che fosse asciugata la malta), rifiutandosi poi di progettare la Fortezza da Basso, dato che aveva i cannoni rivolti verso la città.

Non siamo di fronte quindi a un uomo remissivo, che accetta l’ordine costituito e si mette a servizio dei potenti di turno. Egli è un uomo che orgogliosamente segue la propria coscienza. Ma ha profondamente il senso del reale e quindi del possibile. La sua lotta è per liberare e difendere ciò che egli ha intravisto in potenza. Tutti conoscono i versi in cui descrive il processo di “liberazione” dalla materia inerte che permette alla figura della statua di emergere alla luce. Per Michelangelo si trattava di “liberare” la figura dalla materia: “Non ha l’ottimo artista alcun concetto/ c’un marmo solo in sé non circonscriva/ col suo superchio, e solo a quello arriva/ la man che ubbidisce all’intelletto” (Rima 151).

Egli vedeva la figura nel blocco di marmo come se si fosse trattato di ghiaccio o cristallo trasparente. Ma quando si lavora il marmo, bisogna anche obbedire alla materia: se si dà maldestramente un colpo di scalpello in corrispondenza dei nodi o delle venature, si rischia di spezzare tutto il blocco.

Michelangelo ha quindi lottato con la pietra ma non contro di essa. Rimane famosa l’impresa del David: il grande blocco di marmo era stato abbandonato già in stato di abbozzo da Agostino di Duccio prima e Antonio Rossellino poi. Il problema da affrontare era quello della fragilità del marmo, che non era di alta qualità e “guastato” dalla presenza di fori e fenditure (i taroli).

Anche la forma del blocco era inoltre inusuale e difficoltosa: essendo alto e stretto pareva insufficiente per un corretto sviluppo anatomico. Una volta scolpito, secondo i più non sarebbe stato in grado di reggere il peso della figura sulle sole gambe (motivo della presenza, spessissimo nella scultura marmorea, di cippi o figure di contorno a rinforzo dei punti di carico del peso, come si vede anche nel David).

Michelangelo, in tre anni, viene a capo del suo “gigante”, traendone la statua più grandiosa dopo l’Antichità. Trova, faticosamente, il modo di lavorare con le circostanze. Ma ecco che accade una circostanza che appare proprio contro di lui: la richiesta di un committente dalla “crapa tosta” (leggi: “determinazione”) pari alla sua. Il “tarolo” che ha costretto l’artista a piegare il proprio impeto creativo ebbe il nome di papa Giulio II, con il quale egli ingaggiò una vera e propria lotta, vinta alla fine (caso interessante!) da entrambi i contendenti.

(1 – continua) 

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