Per uno che da anni viene soprannominato “il Principe” della canzone d’autore italiana, la cornice in cui si è esibito ieri sera, quella della splendida Villa Reale di Monza, è senz’altro stata la più adeguata. Quest’estate sta proponendo manifestazioni musicali con un tasso probabilmente mai così alto. Chi, tra giugno e luglio, non ha voluto perdersi nomi del calibro di Bruce Springsteen, Paul Simon, R.E.M., Neil Young, leggende del blues come Buddy Guy, o appunto De Gregori, conti alla mano, ha visto sfilarsi dal portafoglio qualcosa come un bel 500 euro, spostamenti e spese accessorie a parte, segno di una schizofrenia del mercato musicale che, a fronte dell’ormai quasi totale declino delle vendite dei dischi, fa registrare un mercato della musica live altamente vitale.
Ed è proprio nella dimensione live che Francesco De Gregori trova la collocazione più adeguata.
Per l’artista romano infatti, il momento dell’esibizione è quello più importante, segno di un amore alla musica che travalica il concetto di produzione in studio e la conseguente “svendita”: per lui è piuttosto il momento di una sfida con se stesso e con il pubblico (che spesso gli rimprovera di non eseguire le sue canzoni così come le aveva ascoltate su disco) e il risultato è il concetto di arte in continua trasformazione.
Buon esempio sono state alcune riletture in chiave inedita di pezzi altresì ultraventennali, come ad esempio la conclusiva Viva l’Italia, diventata una bella cavalcata rock-blues.
Il concerto, in questo caso, non rappresenta un momento di autocelebrazione, perché il cantautore romano a 57 anni è più vivo che mai, nel bel mezzo di un percorso artistico e umano di ricerca in continuo divenire.
E Celebrazione è appunto il titolo di una delle nuove composizioni, un brano dal fortissimo impatto melodico costruito come una spigliata ballata rock anni Sessanta, che dal vivo ha già acquisito la dimensione dell’epicità, suscitando sin da subito più di una polemica: nell’anno del quarantennale del ’68, in cui riemergono da chissà dove gli scomparsi protagonisti di quella stagione a informarci che “formidabile era quell’anno”, De Gregori prende clamorosamente le distanze. «Ci sono posti dove sono stato, posti dove non tornare […] stanze dove si discuteva di terrorismo», canta in questo brano. In una recente intervista a La7 aveva dichiarato: «il ‘68 ha comportato la morte nelle scuole italiane del concetto di autorità con le conseguenze educative che sono sotto gli occhi di tutti». Mica male per uno che si è sempre schierato a sinistra, e che ancora oggi lo fa, ma da uomo libero.
Francesco De Gregori ha presentato anche alcuni brani del nuovo disco uscito alla fine di maggio, dal titolo Francesco De Gregori – Per brevità chiamato artista, oltre a una carrellata di classici come l’iniziale Cercando un altro Egitto, Alice, Buonanotte fiorellino e la sempre emozionante Rimmel. Canzoni accolte con tripudio da un pubblico fedele ed estasiato e proposte con quell’inconfondibile stile “dylaniano” che lo porta spesso a riscrivere le canzoni in modo spigliato, pescando nel gran calderone della lezione del songwriter americano: vecchi blues ante-guerra, influenze country, deliziosi passaggi folk e addirittura jazzy.
Ci sono poi state canzoni, sempre dal nuovo disco, come L’angelo di Lione, originariamente un brano dei cantautori americani Tom Russell e Steve Young, tradotta alcuni anni fa dal fratello Luigi Grechi (anche lui cantautore, nonchè autore dell’arcinota Il bandito e il campione).
È una storia affascinante quella narrata in questo brano, che De Gregori ha deciso di far sua:
Stanotte nella cattedrale mille candele stanno bruciando
Le tiene accese suor Eva Maria a mano a mano che si van consumando
E dentro ai vicoli come in sogno trascina il passo lo straccione
Il vecchio scemo fuori di testa per il suo angelo di Lione
E cantò l’Ave Maria, almeno i versi che ricordava
Mentre fissava sui vecchi muri la propria ombra che lo seguiva
E attraversò quei due sacri fiumi, il Rodano e la Saône
E l’acqua scura come il mistero di quell’angelo di Lyon
Francesco De Gregori canta il mistero, quella visione che cerchiamo tutti, ogni giorno, distrattamente o coscientemente. Lo ha detto anche ieri sera: «Questa è una canzone che parla del mistero dell’amore». In un’intervista recente aveva parlato di: «una canzone diversa, L’angelo di Lione, che mi ha affascinato per il suo testo impenetrabile. La definirei una canzone sull’impenetrabilità… la “trascendenza dei misteri d’amore”». Anche il volto di una donna, la sua bellezza, in fondo è un rimando al mistero. Ha poi eseguito l’ultima traccia del disco: L’infinito, da solo al pianoforte, con un carisma che ha pochi eguali tra i suoi colleghi. Anche questa una meditazione sul mistero, questa volta quello della morte, visto come apertura a qualcosa di inevitabile e di più grande e atteso quasi con serena anticipazione. Prima, in una sorta di continuum tra passato e presente, aveva riproposto uno dei suoi brani più belli degli anni Settanta, ripescato dopo anni di assenza dal repertorio: Santa Lucia. Una sorta di preghiera laica, un’invocazione a un Oltre che, in modo discreto ma pressante, ha sempre fatto capolino nel songbook di quello che si è aggiudicato meritatamente l’appellativo di “Principe” della nostra canzone d’autore.
(Paolo Vites)