Dizzy Gillespie, al secolo John Birks, nato 93 anni fa a Cheraw ha di sicuro il suo posto nell’Olimpo del Jazz insieme a tutti quei musicisti che hanno saputo ancorarsi alle radici di ciò che si sono trovati alle spalle, sapendolo rivoluzionare. Artisti che hanno saputo aprire quella nuova strada che tutti gli altri poi hanno seguito, un punto di non ritorno, aspettando una nuova rivoluzione. Dizzy Gillespie è il padre del be bop in compagnia di “Bird”, sua maestà Charlie Parker. La stessa sorte toccherà a quel giovane Miles Davis, che suonando con loro imparerà molto e di strade ne aprirà diverse, senza fermarsi mai.
La sua tromba con la campana all’insù, le sue guance gonfie a dismisura rimangono incollate nella memoria degli appassionati di jazz. Le sue composizioni più celebri, come l’immortale A night in Tunisia, appartengono a quel repertorio di standards che ogni jazzista non può non conoscere a memoria.
Famiglia povera dell’America del sud, ultimo di ben nove figli, molto presto orfano della figura paterna, viene salvato dalle scorribande di strada e dai suoi pericoli quando a scuola gli fanno scoprire il trombone. Passerà poi alla tromba che lo porterà a conquistare New York.
Con il soprannome di “stordito”, una fama di burlone, anche se potenzialmente violento, passa la gavetta nelle big band che gli permettono di mantenersi, ritagliandosi il tempo necessario per creare da solo il suo stile, la sua firma. Lo studio dei rudimenti del pianoforte gli permetterà poi di approfondire l’armonia e di non limitarsi alla ricerca di un suono particolare. Dizzy non si fermò infatti al bop, ma intuì la possibile fusione tra i ritmi caraibici e il Jazz.
Durante la sua lunga carriera venne più volte venne in Italia. Il racconto a IlSussidiario.net di Adelchi Cremaschi, appassionato e collezionista, offre un quadretto interessante della Roma anni Cinquanta, quando gli idoli dei ragazzi che provavano a strimpellare erano i giganti del jazz, in un’atmosfera magnificamente resa da "Jazz Band" di Pupi Avati.
«Quando un artista americano veniva in città per un concerto – racconta Cremaschi – il gruppo degli appassionati si radunava in stazione o all’areoporto. Alcuni di noi addirittura mettevano in piedi un complesso in modo da accogliere "degnamente" il gradito ospite. Dizzy Gillespie era atteso a Roma e così ci presentammo tutti in aeroporto. All’epoca avevo una Vespa, i miei amici invece formavano una carovana di vetture. Sceso dall’aeroporto Dizzy puntò dritto alla mia Vespa, iniziando a scorazzare per le piste dell’aeroporto di Ciampino. Dovette intervenire una jeep dei carabinieri per portarlo via».
«Farlo arrivare in città non fu una cosa semplice, ma eravamo ben organizzati. Una macchina americana decappottabile era pronta per potergli far ammirare la città e portarlo all’albergo. Dizzy però si era innamorato della Vespa e voleva a tutti i costi raggiungere Roma guidandola. Dopo una lunga trattativa si riuscì a mettersi in viaggio: Gillespie sul sellino, dietro di me. La scena fu indimenticabile: un signore con la pelle color ebano, cappotto, scarpe e vestito neri, bombetta e un enorme binocolo in mano scrutava la città, senza rinunciare ai complimenti alle belle ragazze».
«Era il 1952, suonò al Cinema Teatro Adriano di Roma una musica rivoluzionaria. L’anno prima avevamo potuto ammirare Armstrong e per alcuni oltre quel tipo di musica non si poteva andare. Chi come me era di orecchie più aperte rischiava addirittura di passare per un tipo un po’ strano. Ma quella era la musica dei neri, che anche durante la guerra avevano subito la discriminazione razziale nell’esercito e segnava una discontinuità con quella musica da intrattenimento che stava segnando il periodo post-bellico».
Quella del be bop fu comunque una vera e propria rivoluzione di una musica che stava concedendo troppo all’intrattenimento, al ballo, ai cliché. Fu la risposta dei musicisti neri che si trovavano a tarda notte a suonare tra di loro, a scoprire una nuova lingua. Magari dopo aver passato ore ed ore a suonare per i bianchi nelle orchestre.
Stiamo parlando di gente del calibrio di Thelonious Monk e Charlie Parker. Quel seme riuscì però a uscire dalle porte dei fumosi locali newyorkesi e, grazie ai primi dischi, a far "cambiare musica", letteralmente. L’organico si riduce, si abbandonano gli arrangiamenti scritti e si sviluppa l’interplay, il dialogo tra i musicisti. Il jazz si fece così più duro, più maturo, più voglioso di sperimentare e di non sedersi mai. Niente sarà come prima.