Polistrumentista, arrangiatore, 35 anni, Enrico Gabrielli ha suonato con tantissimi gruppi e artisti. Fa parte dei Mariposa e dei Calibro 35. Ha suonato per tre anni con gli Afterhours partecipando anche a Sanremo, scrivendo a mano le partiture dell’orchestra , cosa inusuale da anni. Fra i tanti artisti a cui ha prestato aiuto nei loro dischi, citiamo soltanto Dente, Marta sui Tubi, Alessandro Grazian, Julie’s Haircut, Toys Orchestra, Muse, Baustelle. Nei suoi progetti, anche un’opera lirica su un racconto di Michael Ende, dal titolo “La milleundecima notte”, su libretto di Sergio Giusti. Ilsussidiario.net lo ha incontrato prima del concerto dei Calibro 35 a Torino.
Come hai iniziato a suonare ? E come hai deciso di farlo diventare il tuo lavoro?
Ho iniziato a suonare nella filarmonica del mio paese, Ambra, in provincia di Arezzo, intorno ai 13/14 anni. Dalle mie parti era normale entrare nella banda del paese a quell’età. Io non avevo nessun talento specifico: non sapevo nuotare, non sapevo giocare a calcio e non avevo nessun interesse preciso allora i miei hanno provato a iscrivermi alla banda e ho iniziato a suonare il clarinetto. Poi ho fatto il liceo musicale ad Arezzo. È uno dei pochi sperimentali, è un liceo classico con materie musicali e alla fine si consegue il quinto anno di strumento. Poi ho deciso di andare a Milano a vivere e a studiare al Conservatorio dove ho fatto clarinetto e fino al settimo anno di composizione.
Il conservatorio è stato facile o è stata dura?
Il conservatorio è un posto nevrotico, secondo me è come decidere di fare matematica o fisica. Ci sono delle persone che sono particolarmente affascinate o portate per questi studi e li vedi che hanno una forma mentis tutta strana con manie e radicalismi anche molto violenti. Anch’io ho fatto parte di quella schiera. Conta che poi gli amici che frequentavo, pochi in realtà, avevano le mie stesse passioni in particolare la musica classica contemporanea. Non ascoltavo popular music di nessuna forma. Io non sono figlio degli ascolti della gente della mia età, io negli anni Novanta non so cosa sia successo. Dei Marlene kuntz non ho mai sentito un disco in vita mia, ero come in ibernazione.
E come è avvenuto il passaggio dalla musica colta alla musica “underground” rock?
È stato semplice: come clarinettista classico ero una frana, quindi i concorsi in orchestra non li vincevo ed era anche frustrante. L’ensemble in cui suonavo mi aveva cacciato per un ritardo di 45 minuti, tra l’altro il direttore era anche un mio amico, fu una cosa incredibile. Nel frattempo però avevo iniziato a suonare con i Mariposa, complesso composto da due ex compagni di liceo. Si erano formati nel 1998, io sono con loro dal loro primo live del 1999… era l’unica cosa che mi rimaneva (ride nda). Starò con loro sempre.
Quanto conta la preparazione, e il cuore in quello che fai? Spesso non è necessario essere maestri dello strumento per arrivare al cuore dell’ascoltatore.
Quelli che studiano musica classica, o peggio ancora jazz, spesso per colpa degli insegnanti confondono il fine con il mezzo. C’è comunque un’arte dell’interpretazione quando fai musica classica. Lì devi leggere degli spartiti di musica scritti da altri. Quello che devi fare è cercare di rendere al meglio quello che ti viene proposto. A questo serve la tecnica ed è una cosa molto fredda. Passare da quello ad essere creativi ed esprimere in modo emotivamente libero è come se sei uno che fa atletica e improvvisamente ti viene chiesto di fare Formula 1, sono sport che tra loro non c’entrano niente e tu per anni hai fatto lancio del giavellotto, per il quale sei preparatissimo, e adesso devi guidare un’auto. Ci vuole curiosità e fondamentalmente bisogna disimparare una valanga di cose. Io tutto quello che ho fatto nel periodo di composizione ho dovuto togliere di mezzo tutto. Soprattutto con gli Afterhours: per suonare con loro non dovevo sapere niente. Formazione armonica, formazione di struttura: inutili. Semplicemente perché non è quello che serve ed è un ostacolo.
Sei in (almeno) tre realtà diverse: Mariposa, Calibro35, Der Maurer , in più ti ho visto sul palco con Cesare Basile… complicato gestire tutto?
E’ complicato. I due progetti principali sono i Calibro 35 e i Mariposa però per rendere giustizia ad entrambi mi tocca autolimitarli e i live sono ripartiti in maniera più o meno netta 6 mesi uno e 6 mesi l’altro. Quindi salti mortali per gestire l’estate o il rientro in autunno. I Calibro sono formati da altre quattro persone che hanno a loro volta i loro progetti paralleli. Anche per i Mariposa c’è una situazione simile, ma fossero questi i problemi! Son cose a cui si può sopravvivere.
Hai una lista di collaborazioni enorme, soprattutto per la tua età, è un chiamarti di continuo o li vai a cercare?
Ci sono molti modi, dipende molto da dove vivi. Ad esempio ora vivo a Milano e il lavoro a carattere puramente arrangiativo è stato esponenzialmente più alto. A Milano il giro di persone con cui collaboro alla fine è sempre quello, ma sono tutte lì. Comunque è stato sempre un passaparola , soprattutto perché suono strumenti che non si suonano spesso e occupo un ruolo che molto spesso è ancora ‘inutile’ ma fondamentale e non ci sono persone che sono in grado di farlo. Probabilmente ci fossero persone in grado di sostenerlo io lavorerei meno.
Chi , tra quelli con cui hai collaborato, ti ha dato di più in termini umani e chi in termini musicali o metodo di lavoro?
Come arrangiatore puro il disco a cui mi è piaciuto di più lavorare è stato quello della A toys orchestra, perché lì sono stato chiamato con un ruolo, permettimi il paragone, come quello che è di Johnny Greenwood nei Radiohead. Lì ho fatto un lavoro classico, a pezzi fatti sono andato lì con gli spartiti e ho chiamato degli strumentisti per eseguire i brani. E’ stata la cosa più bella e anche complessa che ho fatto. Poi ho lavorato bene con Dente, Vinicio Capossela. Lavorare con Vinicio è stato delicato, ho avuto responsabilità grosse . Dovevo fare il copy, cioè quello che trascrive i brani che lui compone ad orecchio vicino a me a lume di candela (!!!) , quindi “Da Solo’”l’ho lavorato dall’esordio fino alla fine del disco.
E com’è lavorare con lui?
Ho lavorato in ambiente domestico, ho lavorato a casa sua. Io non ne avevo una in quel periodo e lui aveva bisogno che lavorassi sui suoi brani. Mi ha lasciato la sua casa per dieci giorni, in cambio stavo al pianoforte riascoltando i nastri per cercare di trascrivere quello che lui stava suonando di getto. Poi da lì ho fatto gli arrangiamenti per archi e fiati. E’ stato un lavoro delicato perché lui è una persona che non ha molti strumenti critici ma ha delle idee molto chiare, non sa dirti come fare ma sa cosa vuole ottenere. Al contrario Morgan ha una preparazione completamente autodidattica, ha un po’ di pianoforte in mano, ma quello che sa di orchestra lo sa in maniera empirica. Lui usa Reason, che è un programma semplice per simulare le orchestre. Una volta creato mi dava tutto in mano per fare la trascrizione su sparito. Se delle parti non funzionavano le sistemavo io. Un lavoro ben diverso da Vinicio. Dal punto di vista formativo gli Afterhours sono stati un gruppo molto formativo, mi hanno fatto crescere moltissimo come performer.
Mi è piaciuto molto il modo con cui hai dato l’annuncio dell’addio alla band: ironico e della serie “saranno affari miei se voglio far altro”, vado a fare le mie cose. E’ stato così?
Sì è stato così sia nella forma che nei fatti. Io sono uscito dagli Afterhours quando in realtà loro avrebbero voluto lavorare con me espandendo ancora di più la strada che avevano preso per Saneemo, lavorando sempre di più con ensemble e orchestre . Dopo quattro giorni di Sanremo, ma già avevo deciso un paio di mesi prima, me ne sono andato. Volevo dare spazio ai Calibro 35 e ai Mariposa. Tre gruppi sarebbero stati impossibili da gestire.
Proposte per andare a suonare all’estero ?
Sì Mondo Cane (il progetto del 2010 di Mike Patton di riproporre brani anni 50 e 60 italiani in italiano nda), tra l’altro andremo in giro ancora a settembre. L’anno scorso facemmo, a parte l’Italia: Inghilterra, Portogallo, Svizzera, Polonia, Israele, Russia. Praticamente tutta l’Europa. Ho anche suonato nel disco di John Parish (produttore inglese nda) e recentemente Steve Wynn mi ha chiesto di suonare con lui .
E’ meglio suonare all’estero o in Italia?
Non so che dirti. A me questa storia che il pubblico è meglio o peggio non la capisco. Dipende da quello che fai, chi vede una differenza tra il pubblico all’estero e in Italia ha qualcosa di strano sulla coscienza. Il fare entusiasmare la gente non ha nulla a che vedere con uno stato, nazione o contesto è una cosa che si riesce a fare a prescindere anche dal tipo di lingua che usi.
Quest’anno, come voi, sono stato al festival SXSW ad Austin, cosa ne pensi?
Sì, bello, già ero andato nel 2006 con gli Afterhours e vidi cose più interessanti, ma quest’anno l’ultimo gruppo che ho visto, che si chiama Descartes a Kant, un gruppo di messicani, suonavano come delle bestie, facevano delle cose assurde sia come chitarriste (due donne) sia come voci. Stavo andando via senza aver visto niente che mi avesse interessato veramente e me li sono trovati davanti. Ero andato a vedere gli Zoroastro, gruppo osannato dalla critica metallare americana, facevano schifo ma tanto. E’ un festival meraviglioso, l’aria che respiri è unica, anche la scena è enorme, poi c’è un locale ogni quattro porte…
Ci sarebbero stati i calibro 35 se Tarantino non avesse sdoganato il genere?
Credo di sì perché Tommaso Colliva era già fan del genere poliziesco anni 70 italiano. E’ proprio un super esperto. Pensa che veniva dall’hip hop e ho scoperto che lì e in quello metal quel tipo di mondo è stimatissimo. Ad esempio le riscoperte fatte da Mike Patton o John Zorn… piuttosto è da chiedersi se fossimo esistiti senza quel tipo di riscoperte lì. Io non conoscevo bene i mondi di Patton e Zorn e comunque in America il poliziesco italiano non è famoso, non siamo legati a Tarantino ma alla matrice originale, pensa che sui nostri cd attaccano un adesivo con scritto ‘Sounds like Goblin’, lì sono famosissimi (i Goblin era il gruppo che faceva le colonne sonore di Dario Argento nda).
Ti piace più la dimensione live o da studio?
Mi piacciono i contorni di entrambi, il prima e il dopo. Non intendo dire che dopo i concerti bisboccio, intendo dire che mi piace quello che lascia, il dopo. Esattamente come in studio, la mattina prima di entrare a fare e dopo aver fatto, quelle fasi lì sono quelle che preferisco in assoluto, sia in studio sia nei concerti. Vedendola cinematograficamente è’ un po’ il plot delle cose che capitano. Sei sempre in “non luoghi“, lo studio e i palchi sono dei “non luoghi”. Ad esempio ora siamo a Torino , ma potremmo essere dovunque, è un microcosmo che nulla ha a che fare con quello che c’è intorno, fuori. E’ una specie di piccola città. Lo studio è lo stesso, potresti essere a Timbuctu o a New York quello che cambia è il contorno, quello che c’e’ fuori. Ad esempio a New York abbiamo dovuto fare un viaggio, viverci, starci per una settimana e tutto questo influenza quello che fai durante le registrazioni. Sicuramente quello che sto facendo adesso influirà sul concerto che andrò a fare.
Che parte ha l’improvvisazione nella dimensione live?
Nei Mariposa la situazione è molto più estrema che nei Calibro. C’e’ il frontman, Alessandro, che è uno che non ha paura di niente, non concepisce il terrore e la paura, non concepisce niente di tutto questo, lui non so neanche esattamente se concepisce quello che fa, per lui il bello e il brutto sono cose che non hanno senso. Alle volte ha fatto dei concerti in cui una qualsiasi persona media avrebbe trovato imbarazzo feroce nel vedere quello che faceva lui. Piero Ciampi era considerato un ubriacone finché è stato in vita e per Alessandro è lo stesso. Ha un carattere creativo e lungimirante. Mentre i Calibro 35 hanno uno spazio per l’improvvisazione ma sempre limitato, con delle reti , dei bordi.
L’ultima volta ti ho visto al Miami festival, ti piace? Ci vai tutti gli anni?
Ci vado dalla prima edizione e credo sia uno dei festival più belli che ci sia in Italia.
Cosa consiglieresti ad una persona che vuole iniziare ora a fare il musicista professionista?
Di non voler fare il musicista di professione. Di fare musica senza pensare di dover fare il musicista di professione. Guai! A pensare di fare quello poi non lo diventi. Anche solo per l’illusione mancata , per le autosuggestioni. Tra l’altro la musica non è che si studia , c’è solo bisogno di aver testa. Mentre per delle professioni come l’avvocato o il giudice è necessario fare un percorso , ma se fai musica non c’è una garanzia di riuscita o comunque un percorso prestabilito. Quindi consiglio di fare valanga di musica esattamente come disegnare o scrivere senza l’anelito preciso di diventare professionista. Io non mi sento professionista, ci sopravvivo. I professionisti sono quelli che hanno un ruolo da difendere nella società io non me la sento di avere un peso così.
(Raffaele Concollato)