Strana la vita di Terry Callier. Strana e piena di imprevisti e grandi sorprese, di curve e sbalzi. Basta pensare all’arzigogolata storia del suo disco d’esordio, uscito nel 1968 e dal titolo piuttosto banale The new folk sound of Terry Callier, titolo analogo a quello di un’infinità di altri album del periodo. Non c’era niente di comune o, peggio, di banale in quelle otto canzoni. Terry le aveva registrate, insieme ad alcuni altri brani riscoperti anni ed anni dopo, nel lontano 1965, quando aveva appena vent’anni. Poi non ne aveva saputo niente, finché un giorno suo fratello non ne trovò per caso una copia in un negozio di dischi usati vicino alla loro casa.
La sua carriera, o forse sarebbe meglio dire, usando un termine più appropriato, la sua “vocazione” musicale, era iniziata però già nel 1962, a soli 17 anni, con un provino alla Chess Records, l’etichetta di Chuck Berry e Buddy Guy, che avevano mostrato un talento ancora acerbo ma di sicura prospettiva. E tanto talento traspariva anche da quelle serate in cui un diciannovenne Terry, accompagnato solo dalla sua chitarra, lasciava sbalordito il pubblico del leggendario Mother Blues di Chicago (ascoltare per credere le registrazioni uscite soltanto nel 2000), mischiando il proprio amore per il jazz di Coltrane, per il folk e per le proprie radici nere. Quegli esordi erano illuminanti: il suo particolarissimo picking sulla chitarra, unito ad una voce baritonale e ricca di vibrato, avrebbero anticipato di quasi un decennio lo stile di un certo Nick Drake e di trent’anni quello che Jeff Buckley avrebbe messo in mostra nel piccolo Sin-é di New York.
Eppure, nulla parve muoversi. Tant’è che per trovare un contratto per dare un seguito al suo primo album, Callier dovette aspettare fino al 1972 quando la piccola ma coraggiosa Cadet Records gli fece firmare un accordo per tre album. Negli anni precedenti, però, Terry non era stato con le mani in mano ed anzi aveva affinato il suo stile, lontano anni luce dagli stilemi della black music dell’epoca e, anzi, ricco di accordi aperti e rivolti, seguendo un percorso simile a quello di Bruce Cockburn, con la sostanziale differenza di un’anima soul che non poteva venirgli estirpata nemmeno con la forza. Inutile dire che i dischi a venire si avvicinarono indiscutibilmente al capolavoro.
Occasional rain, uscito nel 1972, era un piccolo grande gioiello ricco di coloriture strumentali, di intarsi di piano elettrico e di organo, con una sezione ritmica pulsante e, soprattutto, con canzoni a dir poco memorabili, che parlavano della vita di tutti i giorni, a volte leggere come pioggia di aprile, a volte carezzevoli, a volte dilatate e meditabonde. E il disco culminava con una delle più grandi soul ballad di tutti i tempi, la misconosciuta Lean on me che, nella sua semplicità, assomiglia più ad un abbraccio che ad una canzone.
What color is love, dato alle stampe solo qualche mese più tardi, era un disco più complesso, in cui i brani si facevano più lunghi ed articolati e dove le partiture si scioglievano in arrangiamenti orchestrali complessi ma ricchi di suggestioni e fascino incomparabile. Difficile fare paragoni con altri artisti: forse What color is love potrebbe vagamente ricordare alcune tessiture di Isaac Hayes ma ne è lontano anni luce come approccio, molto più ancorato al folk ed a una tensione spirituale che ha tenuto Terry a galla anche nei momenti più difficili della sua vita.
Superfluo dire che la critica si spellò le mani. Peccato che il pubblico praticamente non si accorse di lui e, così, dopo un altro album pur eccellente come I Just Can’t Help Myself, la Cadet lasciò a piedi Callier, che si andò ad accasare all’Elektra per due dischi, finchè nel 1978 anche quest’ultima lo scaricò senza farsi troppi problemi. Eppure, mentre in molti si sarebbero lasciati andare allo sconforto, Terry lesse i propri insuccessi come un segno e cominciò a dedicarsi a tempo pieno alla propria figlia, fino ad allora trascurata, lavorando come programmatore presso l’University of Chicago e studiando alla sera per laurearsi in sociologia. Tutto pareva correre tranquillo nella sua vita, fin quando, nel bel mezzo degli anni Novanta e dall’altra parte dell’oceano, un certo Eddie Piller, guru del nuovo fenomeno dell’acid jazz, cominciò a proporre i vecchi dischi di Callier nei locali londinesi, fino a farlo diventare un vero e proprio artista di culto e a caldeggiare un suo ritorno sulle scene.
E Terry, che sembrava aver vestito i panni di quell’Ordinary Joe, protagonista di una delle sue più belle canzoni, si trovò circondato da un affetto e da una stima che non si sarebbe mai aspettato. E insieme agli attestati di stima, arrivarono gli incitamenti a ritornare sulla scena, oltre alle proposte di collaborazione.
Così, nel 1997, dopo quasi vent’anni di silenzio, Callier ritornò in studio, questa volta insieme a Beth Orton, registrando due pezzi per l’ep Best Bit. Il primo era una cover del classico di Fred Neil Dolphins. Il secondo era una versione strepitosa per due voci di Lean on me, in cui le splendide armonizzazioni di Terry (ascoltare per credere i voli vocali del ritornello) erano segno che nonostante la lunga assenza, la sua grazia musicale non era andata affatto perduta.
E l’anno dopo fu la volta del comeback album: Timepeace fu un altro disco incredibile, sugli stessi livelli dei dischi per la Cadet, e gli assicurò un successo che mai prima gli aveva arriso. E col successo arrivò un altro segno importante: l’Università di Chicago, scoperta la doppia vita artistica di Callier, lo licenziò seduta stante, costringendolo di fatto a ritornare a tempo pieno a dedicarsi al suo amore trascurato: la musica.
Gli anni a venire portarono una serie di riconoscimenti inaspettati, di collaborazioni maestose (con i Massive Attack e con Paul Weller su tutte), di dischi eccellenti e di concerti in giro per il mondo affrontati con il sorriso di chi è in pace con se stesso e con la vita, grato dei propri mezzi artistici e delle soddisfazioni ottenute. E, siamo certi, neppure la morte, sopraggiunta dopo una lunga malattia, potrà spazzare via il sorriso e la vitalità della musica di Terry Callier da Chicago, uno dei più grandi talenti mai apparsi su questa benedetta Terra.
(Gabriele Gatto)