“Solo duemila persone comprarono Velvet Underground & Nico, ma finirono tutti per fondare un gruppo” disse una vota Brian Eno. A distanza di 45 anni dalla sua uscita, il disco che vedeva l’esordio della band di Lou Reed rimane oggi uno dei momenti più importanti e influenti della storia del rock proprio come aveva detto Brian Eno. Non solo per i musicisti: è risaputo che lo scomparso ex presidente della Cecoslovacchia Vaclav Havel adorava questo disco e servì anche da ispirazione per il suo movimento di resistenza al comunismo, la cosiddetta rivoluzione di velluto. Un disco talmente straordinario che come tutte le maggiori opere d’arte fu troppo in anticipo rispetto ai suoi tempi. In piena esplosione del movimento hippie, infatti, della summer of love, dei colori psichedelici e della speranza, i Velvet Underground si vestivano di nero e cantavano il male dell’uomo: droga, perversioni sessuali, morte. In occasione di questo anniversario questo disco che poteva permettersi il lusso di avere in copertina un dipinto esclusivo di Andy Warhol, la famosa banana, vien ristampato in una versione super deluxe di ben sei cd con alcune registrazioni inedite. Ilsussidiario.net ha chiesto a Daniele Federici, uno dei massimi esperti di questa band nonché curatore del sito italiano dedicato a Lou Reed, loureed.it, di ricordarci la sua importanza.
“Velvet Underground & Nico” è un disco seminale, un disco dal cui seme sono germogliate talmente tante cose che è davvero difficile comporre un albero genealogico o fargli un esame del sangue. E certo che il suo DNA lo ritroviamo in gran parte della musica rock: una volta ascoltato questo, e anche i successivi album, si capisce bene da dove il punk abbia attinto e del perché Lou Reed ne fu definito il “padrino”. I Velvet suonavano spesso dando le spalle al pubblico, vestivano di nero, cantavano di sadomasochismo, droghe, omosessualità e vita di strada. Il loro sound era sporco, grezzo,distorto, “malato”. I loro testi potevano essere fulminee riduzioni di racconti di Burroughs, Selby o Chandler. Sarebbe facile dire che oggi “The Velvet Underground and Nico” conserva pienamente tutta la sua forza dirompente, ma non corrisponderebbe al vero. Dobbiamo inserirlo nel proprio contesto, quello degli anni ’66 e ’67: il mondo e in preda al Flower Power, ai viaggi lisergici della West Coast e del Peace & Love.
Un album come quello dei Velvet era un calcio nelle gengive a tutto questo, una cosa che infrangeva tutti i tabù musicali, poetici: sgrammaticava la chitarra e i testi e ne inventava una nuova. Chi ascolta per la prima volta l’album oggi, a 45 anni di distanza, non può rimanere sconvolto come i fortunati che lo apprezzarono all’epoca: la storia e la musica rock, in questi quattro decenni, hanno contribuito a creargli un contesto intorno. Ma rimane tuttora intatta la sua potenza, la sua freschezza: l’album ha influenzato tutto ciò che è venuto dopo, ma ha resistito ai tentativi di imitazione. La musica è troppo idiosincratica per poterne fare una tela su cui inserirsi: la paranoia delicata di “Sunday Morning”, l’epicitá tragica e glaciale di “All Tomorrow’s Parties”, la cavalcata disconnessa di “Heroin” che riesce a fondere claustrofobia e senso liberatorio della fuga, la camminata ossessiva e dissonante in cerca di uno spacciatore a Harlem raccontata in “I’m Waiting for the Man”. E l’utilizzo della tecnica del bordone da parte di Cale, che proveniva dalla scuola avanguardista di LaMonte Young, nessuno e mai riuscito a imitarli perché il connubio artistico, il miracoloso incontro di questi geni in quel dato tempo e luogo, è coda che avviene raramente ed esperimento irripetibile.
Certo è che, come disse Brian Eno, all’epoca il disco lo comprarono in pochi ma quei pochi misero tutti su una band. Abbiamo parlato di punk, ma anche il rock non fu ma più lo stesso, e il noise rock parte in gran parte dai Velvet. David Bowie fu uno dei primissimi fan del disco e il primo artista in assoluto a eseguirne delle cover qualche anno dopo la sua uscita. I Sonic Youth, più recentemente, sono ossessionati dai VU e il loro sound è chiaramente ispirato ai Velvet. A distanza di 45 anni è difficile, direi quasi impossibile, che vengano pubblicate registrazioni del tutto inedite.
Si può parlare invece, ed è proprio il caso di questa ristampa, di pubblicazione ufficiale di materiale finora relegato ad una ristretta cerchia di collezionisti e appassionati, i cosidetti “bootleg”. Non è cosa da poco. Con i Velvet Underground ci sono sempre state parecchie resistenze alla pubblicazione di materiale inedito: vuoi per una questione di diritti tra i Velvet Underground e la Andy Warhol Foundation, vuoi per l’insoddisfazione di Lou Reed e John Cale, maniaci del suono, verso il sound di bassa qualità che quasi tutte le registrazioni non ufficiali del gruppo hanno. Ma, soprattutto, per disinteresse dei protagonisti, come se tutto quello che i Velvet Underground avessero da dire fosse racchiuso nei quattro album della loro breve storia. E invece no: questo cofanetto di sei cd è la ristampa più approfondita mai realizzata finora, una full immersion che racconta la storia dei Velvet Underground dell’era Warhol, dal gennaio 1966 all’aprile del 1967. Non solo regala agli appassionati la gioia di vedere alcuni bootleg storici finalmente realizzati ufficialmente, ma permette di comprendere appieno la genesi e lo spirito dell’album e dell’epoca.
I primi tre dischetti non fanno altro che replicare l’edizione deluxe uscita nel 2002: la versione mono originale del disco, quella stereo e l’album “Chelsea Girl” di Nico. Quest’ultima non è un’aggiunta superflua, come ha detto qualcuno: l’album è stato registrato nell’aprile del ’67 poco dopo la pubblicazione di “The Velvet Underground and Nico”, metà delle canzoni sono state composte da Lou Reed e John Cale e tutte sono incise dalla band, fatta eccezione per Moe Tucker. Può benissimo essere considerato un progetto parallelo, visto e considerato che sulla copertina del primo disco dei Velvet c’era anche quello di Nico. Questi primi tre CD sono arricchiti da b-side e versioni alternative, tutte cose già edite ufficialmente e che costituiranno la “deluxe version” della ristampa.
Ma il cuore di questa nuova edizione, la parte più interessante, la troviamo negli ulteriori tre dischetti che andranno ad aggiungersi nella “superdeluxe version” : chi vuole capire davvero la genesi del disco e chi erano i Velvet dovrebbe ascoltare prima questi tre, e poi la “Banana”. Il quarto ci mostra i Velvet degli esordi che, nel gennaio ’66, provano dentro la Factory di Warhol alcune improvvisazioni e delle bozze ancora acerbe di “Heroin” e “There She Goes Again” con Nico che si cimenta con poco successo nell’interpretazione di quest’ultima; e ce li mostra successivamente nella vera e propria perla rappresentata dall’acetato originale delle sessioni di incisione tenute dai Velvet Underground agli Scepter Studios nell’Aprile del ’66. È la prima incisione dei brani del disco e contiene alcune versioni differenti dei brani che tutti conosciamo. Quindi vediamo i Velvet Underground degli inizi nella loro veste live durante il primo spettacolo multimediale della storia, l’ Exploding Plastic Inevitable di Warhol che accompagnava la musica del gruppo con proiezioni, ballerini e luci stroboscopiche.
Nel primo disco dei Velvet le forze erano ancora abbastanza bilanciate: una sinergia perfetta che ha creato il capolavoro. Lou Reed era un incredibile compositore, uno scrittore sopraffino, un letterato e un musicista intuitivo, talentuoso e impulsivo. Cale era un musicista colto e ricercato, che veniva dall’avanguardia e dalla musica classica, e un eccellente musicista. Non avrebbero funzionato da soli, almeno all’inizio. Se parliamo invece solo dell’aspetto compositivo, la vera forza motrice è sempre stata Lou Reed; Cale non ha mai raggiunto i suoi livelli e si è poi visto con le rispettive carriere soliste.
Gli altri due membri della band, la batterista Moe Tucker e il chitarrista Sterling Morrison non avevano certo il peso di Lou e John: in una band chiunque assuma il ruolo di compositore dei brani ha certamente un peso di gran lunga più importante rispetto agli altri membri. Ma i Velvet Underground sono stati così seminali per l’insieme delle singole parti. O meglio: per il perfetto amalgama creato. Non sarebbero stati gli stessi se al posto di una delle primissime batterista donne, Moe Tucker, ci fosse stato un uomo. L’aspetto androgino di Moe, che non si capiva inizialmente se fosse uomo o donna, contribuì all’immagine audace del gruppo. Per non parlare del suo modo di suonare inconfondibile: elementare, quasi primitivo, uno stile percussivo che faceva uso perlopiù della cassa, senza piatti e rullate. Certamente originale. “Poche cazzate, siamo i Velvet Underground” è il messaggio che sembra trasudare da ogni nota. Ha reso brani come “All Tomorrow’s Parties” indimenticabili e unici. Anche Sterling Morrison ha dato del suo, musicalmente: era un abile chitarrista e i suoi assoli, alternati a quelli di Lou, non erano mai scontati. Hanno entrambi dato un apporto fondamentale al sound, hanno spesso svolto la funzione di cuscinetto tra Lou e John, e hanno partecipato alla composizione di alcuni brani nati da jam session.
Come ho già avuto modo di dire era un disco il cui impatto innovativo all’epoca era colossale. Se di un oggetto non si percepiscono i limiti, la fine, spesso non si può comprendere la sua grandezza. È come stare davanti alla grande muraglia, con lo sguardo fisso a pochi centimetri: è solo un muro. In un’epoca nella quale c’erano ancora i Beatles, si parlava di figli dei fiori e amore universale, la musica solare della West Coast andava per la maggiore, il messaggio crudo e oscuro dei Velvet Underground era uno schiaffo in faccia, era incomprensibile. Anche nella stessa New York “Heroin” fu bandita dalle radio: questi quattro tossici non solo fanno una canzone che parla di eroina ma lo dicono esplicitamente e lo mettono nel titolo? Banditi!
Ed è in effetti solo l’ultimo tassello di una serie di sfortunati eventi che hanno congiurato affinché l’album avesse poco successo: il ritardo nella produzione della famosa copertina con la banana sbucciabile di Andy (vogliamo parlare anche di questo?), di difficile realizzazione; il ritardo dovuto all’etichetta discografica che nel frattempo decise che Zappa e il suo gruppo meritavano più attenzione promozionale rispetto ai Velvet Underground. E per finire, dopo un anno, appena uscito, venne ritirato poco dopo dal commercio perché Eric Emerson, uno degli attori della Factory di Warhol, denunciò l’etichetta discografica perché compariva sullo sfondo della foto posta sul retro dell’album. Prima fu applicato uno sticker enorme che coprisse l’immagine, poi l’album fu ritirato e la foto modificata per eliminare il volto.
A proposito della cantante Nico, fu accolta nel gruppo per la sua bellezza, senza subbio. Warhol aveva un intuito incredibile, e adorava gli eccessi e gli opposti: per questo pensò ad una figura eterea, algida, bellissima che potesse porsi in contrasto con l’oscurità dei Velvet Underground. I Velvet vestivano di nero, lei di bianco. I Velvet erano newyorchesi, venivano dalla strada; lei era tedesca e altezzosa. Era effettivamente stridente come contrasto, ma molto affascinante e in modo strano e contorno, perfettamente in tema: il portamento e la voce di Nico avevano poco di angelico e rendevano l’effetto finale ancora più cupo e ambiguo. Ma senz’altro Nico aveva delle doti artistiche, lo dimostra la sua carriera solista nella quale diede sfoggio di tutto il suo lato oscuro e al suo atteggiamento “maudit”. Warhol non sceglieva le persone perché le reputava dotate o meno artisticamente, non rientrava nella sua filosofia. L’arte era nell’oggetto e nel prodotto finale, non nell’artista.
Impossibile dire quale sia il brano più significativo del disco: più significativo sotto quale aspetto? Sicuramente ci sono una manciata di brani che hanno una rilevanza nettamente superiore rispetto agli altri, le “gemme” del disco: “Heroin”, “Venus in Furs” e “All Tomorrow’s Parties”. Le prime due credo siano il cuore pulsante del disco: una parla di un tizio che si spara in vena una dose di eroina e racconta in dettaglio il suo “viaggio”, l’altra parla di un rapporto sadomasochista e dell’esperienza sessuale vista in modo alternativo, catartica e liberatoria nella sua espressione di sottomissione. Scioccante e rivoluzionario per l’epoca e ancora oggi dopo 45 anni. Non sono invecchiate di un singolo giorno in mezzo secolo. La viola contorta in una, l’andamento asimmetrico e gli stacchi ritmici nell’altra e quella sensazione claustrofobica e malata le rendono dei capolavori. E la potenza espressiva, quasi epica, di “All Tomorrow’s Parties” è un altro punto irraggiungibile.
Infine l’influenza che il disco ebbe su Havel: lui in persona dichiarò questa ispirazione e, negli anni, divenne grande amico di Lou Reed. Ma facciamo chiarezza: il movimento rivoluzionario non nacque perché ascoltavano i dischi dei Velvet Underground come ho letto da qualche parte, sarebbe molto riduttivo per un momento storico tanto importante. Più semplicemente i Velvet Underground furono colonna sonora del movimento e musa ispiratrice di una certa rottura degli schemi prestabiliti. Il regime cecoslovacco reprimeva pesantemente ogni forma di libertà di pensiero, con particolare attenzione verso la musica rock. Il gruppo “The Plastic People” era una band rock di sovversivi che partecipava a riunioni politiche alle quali partecipavano Havel e tutti coloro che poi avrebbero fondato il movimento segreto e stilato il manifesto “Charter 77”. La band doveva suonare clandestinamente in questi ritrovi e suonava cover di artisti che, secondo loro, erano “contro” lo schema delle cose: tra questi i principali ispiratori furono i Velvet Underground, ma anche Zappa, Captain Beefheart e i Fugs. Non credo, e d’altronde non se ne ha la prova, che il nome “rivoluzione di velluto” sia un dichiarato omaggio ai Velvet: semplicemente fu una rivoluzione soft, senza spargimenti di sangue, vellutata. Ma magari un qualche riferimento esiste davvero.
Una cosa è certa: la storia dei Velvet e quella della rivoluzione di Velluto hanno molto in comune. Entrambe sono partite quasi come una carboneria e poi sono esplose molti anni dopo. Entrambe hanno cambiato per sempre la storia.
(Daniele Federici)