E’ la Marlene Dietrich del rock. E’ nostra sorella morfina, è l’inglese spezzata in due, la meravigliosa regina della Swingin’ London, finita a vivere sotto a un muro a elemosinare spiccioli per pagare la sua tossicodipendenza. Quello che il suo ex amante, Mick Jagger, declamava senza vivere, lei l’ha preso sulle sue spalle e all’inferno ci è andata davvero, fortunatamente con un biglietto di ritorno. E’ morta, rinata ed è tornata a testimoniare.
“Give My Love to London”, insieme al suo storico disco del 1979 “Broken English”, che segnava appunto la resurrezione di una persona data per morta dopo un decennio di abusi, è il suo capolavoro. Di una onestà disarmante. E’ il disco che Nick Cave, che qui collabora scrivendo per lei la trascendentale Late Victorian Holocaust, non riesce più a fare da molti anni. Così Marianne ha preso il suo posto e ha fatto il disco che tutti sognavamo. Non solo Nick Cave: alcune delle menti migliori della sua e della più recente generazione sono accorsi da lei, come è giusto che sia quando Marianne entra in studio: Roger Waters, che ha scritto per lei la splendida Sparrow Will Sing; Anna Calvi, con Falling Back. E ancora: Brian Eno, Ed Harcourt, Steve Earle, tutti accorsi alla sua corte per dare un contributo.
Il disco che Nick Cave, ormai sazio, non riesce più a fare: ecco perché in “Give my love to London” suonano alcuni musicisti dello stesso Cave, Warren Ellis e Jim Sclavunos. E poi Adrian Utley dei Portishead, alla chitarra, Rob Ellis, che è anche uno dei produttori, noto per il suo lavoro con PJ Harvey. Insomma, il meglio del rock inglese più lacerante e visionario, quello che si è egregiamente imposto con un tratto distintivo che ha ridato dignità, linfa e spessore alla Perfida Albione. Marianne li ha evocatie loro sono arrivati: il risultato è probabilmente il disco migliore di questo 2014 agli sgoccioli.
Solo Leonard Cohen può competere con questa donna per quanto riguarda mettere a nudo cicatrici e ferite ancora sanguinanti, e non è un caso che Marianne incida un pezzo dell’ultimo Cohen, Going Home, dal disco di un paio di anni fa. Perché lo abbia fatto, non c’è neanche bisogno di commentarlo, tanto è evidente che stiamo assistendo al dialogo di due umanità profonde che la vita l’hanno indossata senza paure a costo di qualunque prezzo, pure di flirtare a lungo con la morte. E i due, entrambi meravigliosamente anziani, dialogano serenamente tra loro, dicendosi cose che noi comuni mortali non sappiamo neanche immaginare.
E’ un disco che sin dall’iniziale ballatona country che intitola il cd (scritta dal texano Steve Earlee che per forza di cose fa venire alla mente The Ballad of Lucy Jordan, solo che adesso la nostalgia ha preso il posto della fantasia) riempie di meravigliosa malinconia: Londra, Goldbourne Road tra Portobello e quelle strade dove Jimi Hendrix faceva shopping. Lei ci racconta tutto quello che ha visto, con dolcissima sincerità. C’è blues, c’è canzone di raffinata classe, c’è rock viscerale malato e notturno, ci sono suoni paurosi che arrivano dall’inferno, c’è peccato e redenzione come in tutte le storie migliori. C’è l’amore che taglia le vene, nell’apocalittica True Lies, c’è una delicatezza infinita in Deep Water (ancora con Nick Cave), c’è una chansonnier consumata con la sua voce roca e affranta nella bellissima conclusiva I Get Along With You Very Well del fuoriclasse Hoagy Hoagy Charmicheal.
Un disco che non si scopre con un ascolto solo, ma che deve accompagnare chiunque dalla vita vuole di più, chi non si accontenta, chi lascia il cuore aperto come una finestra spalancata.
Per una ragazzina con i fiori nei capelli che aveva cominciato esattamente cinquant’anni fa cantando una canzone dei Rolling Stones, non è poco. E’ tutto.