L’ultimo scorcio del 2014 ci regala l’insperato colpo di coda di una musica italiana da tempo in cerca d’autore. Si riascolta quell’Alberto Fortis che per un relativamente breve ma intenso periodo tra la fine dei 70 e il primo triennio della decade successiva riuscì letteralmente a inventarsi e divorarsi la formula magica per sposare il rigore formale della musica d’autore nostrana alle pulsioni rock d’oltremanica e oltreoceano svecchiandone preconcetti, retorica e seriosità in favore di un approccio rinvigorito e fresco che raccontava di un gusto di vivere e coltivare ideali e passioni con uno sguardo realista e inguaribilmente costruttivo.
Certo il movente, la scintilla originaria dell’avventura artistica del cantastorie milanese fu una ribellione perpetrata in danno delle inveterate gerarchie della discografia italiana di allora, ma altro non era che l’espediente di quello che si rivelò a pieno titolo come una nuova ineguagliabile esperienza di intuizioni sonore e di narrativa metropolitana dei nostri giorni.
La storia è nota. L’esordio rabbioso e incontenibile del primo album – dalla ferocia sardonica di Milano e Vincenzo all’epopea intima e lirica de Il Duomo di notte – le visioni prog-cantautorali di “Tra Demonio e Santità”, gli slanci rock mediati dalle infiltrazioni etniche de “La Grande Grotta”. Fortis nel giro di pochi anni raggiunse e si affacciò per un breve ma fulminante periodo nell’universo dorato e lussureggiante dello star-system e ben presto ne uscì. Un disco sulla scia del predecessore sussurrato con poca convinzione (“Fragole Infinite”) fu solo il preludio ad un album decisamente di rottura per il periodo, un El Nino (1984) oscuro e scorbutico, introverso e stralunato per quanto a tratti geniale.
Fortis finì per far disamorare di sè larghe frange della sua storica fanbase e da lì in poi ne risentì la stessa qualità della proprie uscite sempre più altalenanti salvo parziali eccezioni quali il taglio vivace e volutamente esterofilo di “Assolutamente Tuo” e le felici intuizioni metafisiche di “Dentro Il Giardino”. L’involuto “Fiori sullo Schermo Futuro” sembrò segnare il declino irreversibile di un artista sempre più ripiegato in schemi e cliches delle tipologie più trite e disparate.
Cosa ha permesso dunque – in questo lasso di tempo di nove anni dall’ultimo lavoro – a far sì che per un album come “Do L’Anima” si possa gridare ad un nuovo capolavoro sulla scia dei primi grandi tre dischi e oltre i pregevoli spunti di “Dentro Il Giardino”?. Due elementi mi paiono fondamentali in proposito.
Da un lato quel Fortis che per anni si è intestardito nel rintracciare il codice segreto della musica, di sviscerarne il mistero portandolo sul proprio terreno, è riuscito a colmare quella distanza semplicemente rendendosi disponibile a farsi conquistare dall’essenza irriducibile della musica, lasciandosi lui portare sul terreno di quest’ultima. Dall’altro la complicità fondamentale di Lucio Fabbri, musicista strepitoso e intuitivo come pochi nel giro dei music-maker nostrani. Si sfiorarono soltanto al tempo dell’esordio (Fabbri era in procinto di entrare nella PFM che fu band di supporto del disco di debutto), ora si passano senza sosta il testimone in un lavoro opera di questa insolita two-men band capace di consegnare un suono potente e incisivo quanto quello di una full-band.
E dove ieri il movente di questo capovolgimento di fronte era uno slancio giovanile di ribellione, visione e passione, in “Do L’Anima” la scintilla è il percorso di risalita di un uomo dal fondo di un dolore, una riconquista più potente e profonda perché nata da una sfida lanciata all’abisso della disperazione tuttora in corso e al momento vittoriosa.
“Do l’Anima” è questa sorta di commedia musicale esistenziale. Tra un inizio e una fine che alzano il mood con un gran tiro ritmico, si inserisce una lunga serie di ballate dalle atmosfere variegate che ripercorrono in successione quasi chirurgica l’ineguagliabile campionario della scrittura melodico-narrativa del nostro. In Tu lo sai il violino di Fabbri si destreggia tra scorci d’Irlanda e cenni ad uragani dylaniani, mentre un Fortis passionale e d’impatto si avvale di un insospettabile e funzionalissimo Antonacci ai controcanti.
Non è da meno la successiva lenta e declamatoria Mi fa strano. Un sospirato riff di basso sulle note alte, l’intensità del piano e della voce del protagonista, evocano fantasmi di un Duomo di notte nel quale oltre trent’anni dopo fa la sua comparsa un Vecchioni a rappresentare il saggio e maturo oracolo custode del segreto di quell’antica invocazione.
E ancora una lunga serie di dolci ballate ora più rilassate nell’esposizione (Do L’Anima, E’ semplice) ora più fervide e brucianti di sentori soul-spiritual come le bellissime Aldilà e L’Attimo.
L’album si congeda con un brano che racchiude le due differenti anime del lavoro, quella intima e quella rock, in un’epica cavalcata di 6 minuti tra progressive e musical. Da un acquarello di flauto a un tappeto di chitarre acustiche, fino all’esplosione finale condotta a mo’ di gospel autoctono dall’orchestra e da un Fortis istrionico e arrembante supportato dal forcing festoso di handclap e cori.