Mi è capitato di dividere il palco con Claudio, Martino e Benedetto Chieffo. Non da musicista ovviamente, ma da scribacchino, presentatore, a volte inquisitore (nel senso che avevo l’ingrato compito di rivolgere loro delle domande tra una canzone e l’altra), soprattutto spettatore. Se c’è una cosa che ho sempre trovato in comune tra di loro, padre e figli, è stata l’immenso amore per le canzoni. Qualunque canzone. Che fosse Claudio, l’autore, che trattava quelle canzoni come se non fosse neanche lui ad averle scritte, sempre timoroso di maneggiare qualcosa di più grande di lui e che era giunto a lui attraverso di lui senza considerarsi quasi il creatore ultimo, o che fossero i figli, ancor più timorosi di maneggiare “quelle” canzoni.
Rispetto e amore per un dono, ecco cosa ho sempre visto negli appartenenti alla famiglia Chieffo; auto ironia anche, spesso paura e anche dolore. Perché una cosa talmente grande si vorrebbe la conoscesse il mondo, ci si sente inadeguati davanti ad essa e ci si incazza anche perché il mondo volta le spalle a tanta bellezza.
Per questo il disco di Benedetto Chieffo non è un disco di cover, né un tributo né tantomeno l’opera prima di “un figlio d’arte” come si è letto con fastidio qua e là.
Mi sembra il lavoro necessario che i figli di Claudio dovevano prima o poi affrontare (Martino ad esempio lo fa da sempre con tanti spettacoli) non per se stessi, ma per l’amore alle canzoni che essi hanno dentro. Come ce lo aveva Claudio.
Ecco perché “He is Here” ha senso e perché colpisce così a fondo. La domanda che infatti bisognerebbe farsi non è perché un figlio di Claudio Chieffo ha fatto un disco di canzoni sue, ma perché non lo ha ancora fatto nessun altro.
Benedetto ha fatto una scelta di canzoni da incidere che già dice moltissimo. C’è uno straordinario filo rosso che lega brani poco noti, alcuni mai incisi prima, ed è quello di una grande malinconia. Non so se è quella che vive chi ha perso una persona cara – e quale persona è più cara del padre – o se è quella malinconia di infinito che aveva dentro Claudio.
Per dirne una, mi sono dovuto fermare mentre scendevo le scale della metropolitana e dal mio i-Pod è uscita fuori I gesti, canzone che mi ha riportato di schianto a certi pomeriggi da liceale, sperduto in mezzo a tanti coetanei in un salone il cui sole primaverile entrava accecante dai finestrino socchiusi, mentre qualcuno ci parlava del mistero della vita, del mistero che fa le cose. Una canzone dimenticata, risentita 35 anni dopo o giù di lì e checonserva tutta quella potenza indagatrice di allora: “l’anima mia è triste fino a morire” spacca il cuore adesso come allora. Benedetto la canta benissimo, con urgenza e decisione: puoi declinare quella frase in un milione di modi diversi, non so come viva Benedetto mentre la canta, ma so che è così maledettamente reale. “Perché non mi guardi negli occhi? Perché l’amarezza è il tuo volto? E’ dunque già tutto finito?”. “Signore perché mi hai lasciato? (…) I gesti sono l’ombra di un tempo le parole feriscono solo ma il sangue è l’ultimo dono”. Solo chi ha vissuto profondamente e veramente sa cosa significano queste parole, quanto sangue può uscire da un cuore ferito. Chi non si è mai lasciato ferire il cuore per troppo orgoglio non capirà.
L’accompagnamento, come nel resto del disco, è leggero e profondo allo stesso tempo. Benedetto stesso scrive nel disco che lui e i suoi accompagnatori si sono ispirati ai dischi e agli spettacoli del padre. Bene hanno fatto. Alcuni arrangiamenti sono di Paolo Forlani, che nel disco suona chitarre acustiche ed elettriche, mandolino, ukulele, piano Rhodes; altri sono di Pietro Beltrani, al pianoforte nel disco. La canzone del melograno è arrangiata da Forlani e Giacomo Grava, quest’ultimo al cello. Filippo Corbella infine, chitarre acustiche, ha arrangiato con Forlani l’iniziale Irish Song.
Canzone che apre il disco forte e orgogliosa, l’Irlanda come volto del destino, un destino “dolce e duro”, una Irlanda che ha significati molto diversi per Claudio e Benedetto, di questo sono abbastanza sicuro. Un’Irlanda che sfida e invita, esattamente come la vita.
E’ una malinconia sconfinata quella che fa capolino in questo disco (chi dice che la malinconia non ha lo stesso valore dell’ottimismo, si faccia delle domande e se riesce si dia una risposta), una malinconia che rivela il vero volto delle canzoni di Claudio Chieffo.
Come Benedetto Chieffo sappia ritrovare questa malinconia con una canzone particolarissima comeVorrei, non è dato saperlo. Sta di fatto che l’incalzante sottolineatura di violoncello crea crepe così profonde a cui risponde la voce interrogativa del cantante: “E’ più grande di noi la storia che viviamo più grande del mattino che aspettiamo”. Che significa davvero, che cosa ha significato per chi ha scritto la canzone e per chi la canta ora? Non lo sappiamo, ma siamo grati che queste note si rialzino di nuovo, forti e intense. La stessa gratitudine che fanno rimbalzare le note di Gloria, quell’assenza presenza nelle poche note di chitarra sparse qua e là, con un arpeggio che è antico come una strada del Greenwich Village decenni fa e che riappare dalle parti di Forlì. “La tua mano fra i miei capelli forte e fragile”. Quanta bellezza. Quante lacrime. E ancora: Il vento ottiene lo stesso risultato.
Un disco tutto da scoprire. Io continuerò a farlo, pensando al mio amico Claudio, presente qui più che mai. He is here. Dal padre al Padre, la storia continua e ci siamo dentro tutti, quelli con la malinconia e anche quelli che non sanno cosa sia.