Nexo Digital e Good Films hanno presentato nelle sale italiane “Amy – The girl behind the name”, il film sulla vita della scomparsa Amy Winehouse. E’ infatti riduttivo in questo caso parlare di documentario: si tratta di un lungometraggio (più di due ore la durata) e sicuramente chi non è riuscito a vederlo nelle sale in questi tre giorni di programmazione italiana (15-17 settembre) potrà trovarlo a breve in dvd.
La vita delle rockstar passate – anche se in questo caso per breve, intensissimo tempo – sotto i riflettori mondiali è qualcosa che crediamo di conoscere bene, ma in realtà non è così. Spesso scavando a fondo si trovano aspetti che giocoforza non arrivano sui tabloid, o non interessano i più, che archiviano in fretta il caso: rockstar-maledetta-autodistruzione-morte.
In realtà Amy era una ragazza dalle idee molto chiare, che già dall’età di 14 anni aveva fatto parte di una big band di jazz, e che nella musica di quel tempo non trovava niente che la rappresentasse veramente, dopo aver ascoltato appunto il grande jazz o autori come James Taylor e Carole King. E allora ha cominciato a scrivere canzoni per conto suo.
Impressionante vederla negli uffici della Island Records, al primo provino per ottenere un contratto, accompagnarsi da sola su una chitarra acustica e cantare suonando complicati accordi jazz, fuori da qualunque schema, una memoria antica in un corpo estremamente giovane, un albero acerbo, ma dentro cui si intravvedevano i rami già carichi dei frutti futuri.
Ma l’altra componente fondamentale che emergeva nei suoi testi, scritti con la grafia rotonda e curata da eterna adolescente, era il suo drammatico vissuto. Una famiglia distrutta dalla fuga del padre, solchi profondi che la musica per un certo periodo riempirà, ma che il successo e le compagnie sbagliate amplificheranno fino a pesare come macigni su un animo sensibile e una psiche fragile, pur sotto una maschera estroversa a tutti i costi.
Alcol, droghe, sono sempre la compensazione di qualcosa che manca, e quello che è mancato ad Amy fin da bambina è la figura del padre, andatosene di casa quando lei aveva 8 anni. E proprio due figure maschili furono quelle che condussero Amy allo sfascio totale: suo marito, che la portò ad amare l’autodistruzione, e proprio il padre, che quando si accorse che la figlia era diventata una macchina da soldi, tornò alla carica (e lei ci cadde), probabilmente costringendola a fare cose che Amy avrebbe dovuto per un po’ accantonare, per lavorare seriamente sulla sua salute.
Tuttavia, come ben si sa dalle cronache, ad un certo punto lei non fu più in grado nemmeno di fare ciò che amava di più, cantare, rimanendo muta davanti al microfono e a decine di migliaia di persone, accorse perché credevano in una sua ripresa. Così non fu, purtroppo, e fra accelerazioni e brusche sterzate, un destino tragico arrivò malauguratamente all’appuntamento e non la risparmiò.
Alla base della realizzazione di questo eccezionale documentario sta un triumvirato composto dal regista Asif Kapadia, il produttore James Gay-Rees e il montatore Chris King. I tre avevano realizzato qualche anno prima il film sulla vita del pilota di Formula 1 Ayrton Senna, e contattati da David Joseph, presidente e amministratore di Universal Music, hanno accettato la sfida di raccontare la vita di Amy Winehouse.
Prima ancora di iniziare il lavoro di ricerca e di intervista dei testimoni, decisero che il film sarebbe stato ricamato su una trama costituita proprio dai testi delle canzoni, che scorrono sullo schermo e fungono da fil-rouge, racconto e quasi profezia a tratti della vita dell’artista.
“Non ho mai voluto scrivere niente che non fosse personale”, dice ad un certo punto Amy in un frammento di intervista. “La cosa che ci colpì di più è che era vera”, asseriscono a ragione tutti quelli che l’hanno incontrata. Così vera, aggiungo io, da vivere sulla propria pelle tutte le contraddizioni che si portava dietro fin da ragazzina: un fisico esuberante e una sensualità disinibita, la dipendenza dall’alcol e dal fumare erba, fino all’essere coinvolta dal marito nell’uso di altre droghe, e il non riuscire drammaticamente a staccarsene nemmeno quando era chiaro che il suo fisico non stava reggendo più.
“La maggior parte delle persone che intervistavamo – racconta il regista – parlando di Amy scoppiava a piangere. Ma non c’era bisogno di vederlo sullo schermo, l’emozione passava attraverso la voce.” Questo ha aiutato molto tutti i testimoni ad essere ancora più personali nei racconti. Così video inediti (ricuperati dopo un lungo periodo di diffidenza), frammenti audio, estratti da concerti e video dell’archivio personale si mescolano in un caleidoscopio ben ordinato e tenuto insieme dai testi delle canzoni e da suggestive riprese aeree dei quartieri di Londra in cui si snodava la storia.
Come già accennavamo, l’accesso ai materiali di repertorio non è stato facile, perché la produzione, per allestire un lavoro completo, ha dovuto assicurarsi la fiducia di molte persone diverse. Alla fine uno dei personaggi chiave è stato il primo manager della Winehouse, Nick Shymansky, che fra l’altro è stata forse la figura più umana che lei abbia incontrato. Occorrerebbe indagare un po’ di più su questa coincidenza, ma è proprio quando si è interrotto il rapporto fra i due che è iniziata la terribile spirale che ha portato l’artista all’autodistruzione e alla morte. In tutto il suo statuario cinismo si staglia invece la figura del padre, grande assente nella fanciullezza, presenza ingombrante e dannosa nell’ultima parte della vita di Amy. Mai dannosa quanto quella del marito Blake Fielder, vero e proprio artefice e complice del processo di autodistruzione che portò Amy alla tragica fine.
Forse abbiamo scritto troppo. Ma non possiamo non dire che questo film è assolutamente da vedere per tutti gli appassionati di musica moderna, ma anche per entrare in contatto con la storia di una persona vera, nel bene e nel male, negli eccessi positivi e in quelli negativi, sempre alla ricerca di qualcuno che la amasse. Tutto il lungometraggio è una accorata e riuscita testimonianza di quello che qualche anno fa disse il grande giornalista irlandese John Waters: le vite drammatiche e gli eccessi di molte rockstar sono il segno di una mancanza, la mancanza di qualcosa che trascenda la dimensione di quello che possiamo fare, la semplice alternanza successo/sconfitta, la vita impossibile che queste persone sono quasi obbligate a fare, riuscendo a volte ad essere se stesse solo sul palcoscenico.
Il trascendente – una scaletta di corda spirituale, la chiamava -, quel rapporto con il significato di tutto (chiamatelo Dio oppure no) che ha tenuto vivo chi se lo è chiesto e ci ha fatto i conti. Per non ripiombare nello stereotipo, nel cliché da quattro soldi della rockstar maledetta. Qui abbiamo davanti una grande artista, con le sue domande e la sua ferita, sempre aperta fino all’ultimo.