Difficile pensare a un esempio di coerenza artistica, umana e civile, in un mondo effimero come quello della musica, pari a Joan Baez. Da poco ha compiuto 75 anni in forma smagliante e un libro uscito lo scorso anno (che recensiamo con colpevole ritardo) ne mette brillantemente in mostra proprio l’aspetto umano e impegnato più che quello artistico, pur non rinunciando anche a quest’ultimo. Si intitola non a caso “Le battaglie di Joan Baez” (Il Margine, 140 ppg., 12,00 euro) e ne è autore un giovane (cosa questa che ci rincuora, sapere che anche le ultime generazioni sanno guardare a un passato che ha segnato la storia), Paolo Caroli, di professione avvocato.
Partendo da inizio carriera, Caroli inserisce perfettamente la Baez in quanto stava succedendo in quel periodo spiegando perché questi giovani idealisti si rivolgevano musicalmente a una storia antica, quella del folk nordamericano, piuttosto che alle musiche di successo del momento, il nascente rock’n’roll: “Se in Virginia o sugli Appalachi questa musica era musica commerciale, nel resto d’America, nelle grandi città e nei campus universitari recuperare tale musica era invece deliberatamente scelta valoriale di carattere ideologico anticommerciale”.
In modo approfondito Caroli indaga poi il rapporto sentimentale/artistico che legò Dylan e Baez, un rapporto che i due usarono anche per promuoversi a vicenda dal punto di vista commerciale: lei per entrare nell’ambiente radicale degli attivisti per i diritti civili, lui per entrare in quello di una larga audience di cui ai tempi la cantante già godeva.
Il capitolo chiave che introduce la peculiarità del libro è il terzo, “Martin, David e la Regina della Pace”. Da Martin Luther King al marito David Harris, attivista pacifista che fece anche un anno di carcere per essersi rifiutato di andare in Vietnam, alla fondazione, per iniziativa della cantante stessa, dell’Istituto per lo studio della non violenza, Joan Baez diventa figura di riferimento per la nuova America.
La sua posizione di assoluta indipendenza ideologica la caratterizza come raro esempio di indipendenza in un campo, quello dei diritti umani, spesso soggetto alle appartenenze politiche. Joan Baez si recherà più volte a suonare anche in clandestinità per i dissidenti dei paesi del blocco sovietico, sfuggendo miracolosamente a un arresto a Praga. Ad Hanoi, portata in visita ai prigionieri di guerra americani, Joan Baez recita il Padre nostro e poi canta il gospel Kumbaya. Gli anni 70 sono invece caratterizzati dall’impegno contro le dittature sudamericane, in particolare quella cilena, con l’incisione di canzoni straordinarie quali Gracias a la vida, mentre nei primi anni 80 si schiera a favore di Solidarnosc, andando a visitare il leader imprigionato Lech Walesa. Fino a oggi, con esibizioni nella ex Jugoslavia o a sostegno di nuovi movimenti di protesta come Occupy Wall Street.
Di tutto questo impegno, la Baez commenta: “Verrò messa in discussione dalla destra e dalla sinistra, perché ho osato equiparare le loro lotte, ma nessuno potrà mai mettere in discussione il fatto che le chitarre suonate clandestinamente in Cile, El Salvador e Guatemala sono identiche a quelle che si suonano in Polonia e in Unione Sovietica”.
In questa vita spesa sulle barricate del mondo, non mancano le crisi, le contraddizioni per il ruolo di star musicale, anche le contestazioni da chi la considera una strumentalizzatrice delle lotte civili per farne una carriera di successo, narrate dall’autore con approfondita serietà.
Il volume contiene anche una ricca discografia dettagliata.
Alla fine di un libro come questo resta una domanda: perché niente Nobel per la pace a Joan Baez?