La questione è annosa, anche se un tempo si discuteva a livello razziale: può un bianco, cresciuto nell’opulenta società occidentale, suonare il blues, la musica degli afroamericani ridotti in schiavitù? Per taluni puristi no. Il British Blues, musica fatta da ragazzi cresciuti nel boom economico del dopoguerra, gente tipo Eric Claptpn, Jeff Beck o Jimmy Page, dimostrarono che non solo si poteva, ma ne rinnovarono pure il linguaggio musicale, affascinando anche i maestri. Non furono pochi i dischi di gente come Muddy Waters, Howlin’ Wolf o John Lee Hooker incisi con questi ragazzotti.
Oggi che il blues gli afroamericani non lo suonano più, avendo optato per formule sicuramente più remunerative come il rap, la questione potrebbe essere: può un italiano suonare il blues delle origini? Non sarebbe come se un gruppo di abitanti di Okemah nell’Oklahoma incidesse un disco di cori degli alpini? Per qualche ragione, poi, in Italia da sempre c’è un esercito di musicisti che “suona il blues”.
A volte il risultato è più o meno quello del coro degli alpini, altre volte invece è qualcosa di emozionante, che supera il concetto stesso di partenza e che oltre a essere un doveroso omaggio, è anche capace di originale espressività.
Andrea Laino fa parte di questo ristretto numero. Sarà che in America c’è stato; sarà che per le strade e sui marciapiedi ci ha suonato a lungo e magari anche a qualche “crossroad” e sarà che ha provato strade diverse prima di arrivare a questo esordio solista, “The Dust I Own”. Prima con un quartetto, adesso in duo sempre con il bravissimo batterista Gaetano Alfonsi e l’ospitata in un brano di Mauro Ottolini al sousafono (avete presente quella specie di enorme trombone che gli appartenenti alle bande musicali si portano sulla schiena, tipico del New Orleans sound e delle marchin’ band?).
Il risultato è un disco che pesca sì nella tradizione dei bluesmen acustici degli anni 30 e 40, tipo John Mississippi Hurt, ma anche in quella di quei moderni songwriter bianchi che hanno fatto propria questa musica, ad esempio Tom Waits ma soprattutto al miglior esempio di blues moderno, anche loro un duo chitarra e batteria, i North Mississippi All Stars.
“Il progetto nato per strada, nell’ottica della street performance, si sviluppa elaborando storie di vita quotidiana, sogni e mitologie nella forma canzone. Affonda le proprie radici nel blues del Delta, scegliendo di articolare i propri pezzi attorno ad un’unica accordatura aperta (G-tuning) esplorata in diverse direzioni. Una terra comune da cui germogliano semi la cui natura è a volte contraddittoria e misteriosa. Semi bruciati, dimenticati, spezzati” spiega Andrea.
Il disco inizia come un film, Bo Weavil è una sorta di inquadratura cinematografica di un paesaggio notturno inquietante, con una slide sguaiata che richiama mantra orientali su un canto ripetitivo, sorta di invocazione voodoo. Col brano successivo le luci si aprono e comincia una storia musicale piena di sorprese. Boogie Tale si apre con una slide vigorosa e un tempo alla John Lee Hooker; Fate of Gambler, ancora un ritmo ossessivo e implacabile, gode di una splendida chitarra elettrica in un crescendo caotico mentre la voce ricorda quella di Jack Bruce dei tempi dei Cream.
In Old Tape of Memories si ha il m omento di maggior paragone con il blues rurale dei NMAS, forse il brano migliore, con una ottima prestazione vocale e grandi parti di slide. In On the Wood fa la sua apparizione il sassofono, che detta il ritmo mentre la slide ricama sopra. In What Once Was Dead ci godiamo una massiccia esplosione blues e una invocazione per i fantasmi di Muddy Waters e Howlin’ Wolf.
Come era iniziato, il disco si chiude con un’altra ambientazione cinematografica, finalmente la furia si placa: Pay Day fa scorrere i titoli di cosa su un paesaggio alla Ry Cooder. Il sole sta calando, il diavolo torna a nascondersi al crocicchio.