Abbiamo trovato un cantautore originale, uno cioè che non scopiazza e imita miti dal passato appiccicandoci un po’ di trend del momento? Abbiamo trovato uno che scrive testi che non sono Baci Perugina o status di facebook e twitter incollati qua e là, cercando di essere “la voce di una generazione”? Ma quale generazione poi? Quella attuale, giovani auto compiaciuti del loro “essere o non essere”, sempre sull’uscio della porta di casa a guardare il mondo senza farsi toccare dal mondo, autoreferenziali e con un giusto tocco da maledetto per far colpo sulle ragazzine?
Francesco D’Acri è qualcosa che non centra coi tempi che corrono, è qualcosa che va oltre mode e pianificazioni marketing. Non lo vedrete mai ad esempio canticchiare canzoncine da discoteca con uno scimmione al fianco fingendo di aver scritto una canzone “impegnata”.
Cantautore ben conosciuto nel milanese, dove da anni si esibisce in ogni spazio disponibile, dai bar di periferia ai marciapiede a locali più prestigiosi, ha già inciso due dischi: l’ottimo “Che cosa sei”, suo esordio con l’accompagnamento di giganti della musica italiana quali Mark Harris (De André, Finardi, Renato Zero fra gli altri) e Luca Zamponi (collaborazioni fra gli altri anche con Pat Metheny), un disco di genuino rock urbano moderno, e “Over the Cover”, una raccolta di brani altrui, classici della canzone d’autore anglo americana.
Con “Il principio di Archimede” pubblica oggi la sua opera più matura, un disco dall’alto impatto emotivo, intenso, anche difficile da indagare al primo ascolto. Ne necessita diversi di ascolti infatti prima di riuscire ad addentarsi nel circuito nervoso e nel cuore di queste canzoni, il che è sempre un buon segno.
Composizioni essenzialmente acustiche, con il sostegno di uno splendido trio d’archi, pianoforte, percussioni dietro le quinte. Se proprio un paragone bisogna farlo, queste canzoni sarebbero state benissimo in bocca a gente come Gino Paoli, Massimo Ranieri, Ricky Gianco, Lucio Dalla, quando la canzone italiana era qualcosa di elegante e la purezza e la bellezza della melodia veniva prima di tutto così come la bella voce, cosa che a D’Acri non manca neanche questa.
Così è questo disco, un’opera nobile che si inserisce nella grande tradizione melodica italiana, oggi quasi del tutto scomparsa. D’Acri, quarantenne, non ha bisogno di dimostrare che appartiene alla generazione degli hipster piuttosto che qualche altro stupido nomignolo: lui canta di sé, della vita reale e concreta di chi si suda le giornate lavorando e alla notte viene assalito da turbamenti, dolore, riflessioni, ricordi, domande sul senso stesso di fare musica, “naufrago di troppi miti andati a fondo”.
Cerca di farlo in modo comunque moderno: la bella sezione archi ad esempio (il rimando obbligatorio è al primo disco di Nick Drake) non è registrata in sottofondo come sempre si fa in questi casi, ma piantata bene in primo piano, tanto da sembrare quasi un’orchestra sinfonica potente come un assolo di chitarra.
Sia per la piacevolezza melodica (è il caso dell’iniziale Versi fragili, Milano è così, Portami a ballare tra le altre) che per la sfida che impongono, sia per l’atmosfera sonica così originale, sia per la profondità dei testi.
La delicatezza dell’iniziale Versi fragili, la complessità della title track, il fascino quasi jannacciano di Milano è così (“Milano è così, chi si accontenta muore”), la forza malinconica di Se bastasse (dedicata a un amico morto suicida), la dolce malinconia di Portami a ballare, la struggente e conclusiva Ricorderai, solo voce e archi conducono al punto più alto del disco, la straordinaria Un sentiero verso le stelle, solo voce e pianoforte, e che pianoforte. Lo suona Lorenzo Definti, jazzista di fama internazionale, ricamando note visionarie e minimali, una sorta di New York City Serenade, in cui D’Acri canta con potenza espressiva rara del desiderio, comune a tutti se ne sia consapevoli o meno, del viaggio, mosso in questo caso dalla passione per la musica, che diventa in un viaggio ideale verso le stelle, ovvero oltre noi stessi, quel percorso che porta alla scoperta del proprio Io. Il che non significa necessariamente risparmiarsi fatica e dolore, anzi.
Dietro questo disco un cast eccellente: arrangiatore dei brani e del trio d’archi il chitarrista Walter Muto, tra i più rinomati d’Italia; il già citato Definti; la fisarmonica di Carlo Pastori; Ermens Angelon, batteria e percussioni; Carlo Lazzaroni violino, Angelo Calvo viola, Maria Calvo, violoncello.