Tra le molte stupidaggini lette in giro sui social network dopo la morte di Chester Bennington, il cantante dei Linkin Park, c’è chi ha scritto che “i cantanti di una volta morivano di droga, ma non si uccidevano: avevano le palle”. Morire di overdose è comunque un suicidio: lento, continuamente rimandato e anche nascosto a se stessi e dunque se si parla “di palle” forse “i cantanti di una volta” ne avevano meno di chi si uccide in una botta sola, impiccandosi come ha fatto Bennington. Ma c’è ancora chi è attaccato a stupidi e falsi miti, a quanto si legge sui social network.
I cantanti di una volta, inoltre, difficilmente avevano avuto infanzie e adolescenze così terribili come quella di Chester Bennington: ripetutamente violentato da un amico più grande di lui, non aveva avuto il coraggio di denunciare il fatto a nessuno quando aveva scoperto che anche l’amico era stato vittima di violenze sessuali, in questo modo ovviamente buttando dentro di sé i semi di un trauma devastante. A questo “inconveniente” era seguito il bullismo subito a scuola e poi la lacerazione del divorzio dei genitori.
Come rimedia un ragazzo degli anni 90 a tanto dolore? Nell’unico modo che la società sa mettere a disposizione a chi è solo: la droga e l’alcolismo. Chester Bennington raccontava che da ragazzo quando lavorava da Burger King, spendeva quasi tutto quello che guadagnava in cocaina e metanfetamine. Pensare che aveva un padre investigatore della polizia e una madre infermiera. Dov’erano? Non nella sua vita, evidentemente.
Che fai se poi hai del talento e ti piace la musica rock? Come cantava Mick Jagger una volta, “che altro può fare un povero ragazzo se non cantare per una rock’n’roll band?”. E così fece Chester, inventandosi i Linkin Park e cogliendo anche un successo mondiale.
In un mondo, quello degli ultimi decenni, dove è saltato ogni tipo di legame affettivo e educativo, dove ogni tipo di religiosità è sbeffeggiata e negata, dove tutti criticano tutti e ognuno è colpevole del male altrui e tutto fa schifo, spargendo solitudine, negatività e cinismo a piene mani, è proprio così: non c’è altro posto dove trovare salvezza se non in una rock’n’roll band. Per quanti morti questa musica si porti dietro, state certi che ne ha salvati di più di quelli che ha ucciso.
Chester Bennington purtroppo prova soltanto che neanche questo può bastare: “Le ferite non guariranno” cantava in Crawling. Nessuna ferita può infatti guarire da sola. C’è bisogno di qualcuno che se ne faccia carico insieme a te.
A Chester in realtà non mancava l’aiuto. Un mese fa circa il figlio aveva messo un post it sul frigorifero di casa usando alcuni versi di una canzone dei Linkin Park: “Papà, goditi le prove o qualsiasi cosa tu stia facendo oggi. Ama la vita, perché è un ‘Castello di vetro'”. Aveva aggiunto solo “papà” prima di quelle parole di Castle of Glass dei Linkin Park. Ma in certe situazioni non ci rendiamo conto di quanto amore abbiamo a portata di mano.
Certamente Bennington ha compiuto un gesto di emulazione, scegliendo di suicidarsi nello stesso modo di Chris Cornell, suo grande amico e come lui devastato dalla depressione tutta la vita, impiccandosi, il giorno del suo compleanno, il 20 luglio.
A lui aveva scritto una lettera aperta, dopo la sua morte: “Tu mi hai ispirato in molti modi che non hai mai saputo. Il tuo talento era puro e ineguagliabile. La tua voce era gioia e dolore, rabbia e perdono, amore e dolore tutto avvolto in una cosa sola. Prego che tu possa trovare pace nella tua prossima vita. Grazie per avermi permesso di far parte della tua vita”.
Poco più di un mese fa i Linkin Park avevano suonato a Monza. Chi li ha visti, come ci ha raccontato Rebecca, una ragazza di vent’anni, non scorderà mai quei momenti. Rebecca tra i vari gruppi in scena quel giorno non era andata per loro, li conosceva solo di nome, ma dopo quella sera, ci ha detto, ha cominciato ad ascoltare tutti i dischi tanto l’esibizione di Chester l’aveva impressionata: “Durante i pezzi lanciava degli urli terribili, rimasi impressionata. Qualcosa che non avevo mai sentito, urla spaventose. Poi invece era sceso in mezzo al pubblico, e si lasciava abbracciare da tutti, baciare e li baciava, come in un grande abbraccio collettivo”. Da quella sera Rebecca sta ascoltando tutti i loro dischi, specie l’ultimo, che, dice, contiene tanti messaggi positivi: “Mi ha scioccata la sua morte, ma sono felice di averlo conosciuto, in mezzo a tutta quella gente.Mi ha lanciato una domanda e adesso sto cercando nelle sue canzoni la risposta”.
Che altro può fare un povero ragazzo se non cantare per una rock’n’roll band e rendere felice il prossimo? Ecco perché anche una morte così ha un senso, quando la vita ha avuto nonostante la sua apparente devastazione un senso.
Al funerale di Chris Cornell aveva cantato in modo tenero e commovente il brano di Leonard Cohen, Hallelujah: “Ho fatto del mio meglio, non era granché Non provavo nulla, così ho provato a toccare Ho detto il vero, non sono venuto per prenderti in giro E anche se è andato tutto storto Mi ergerò davanti al Dio della Canzone E dalle mie labbra altro non uscirà che Alleluja”. Parole che elevano a un significato superiore quelle umanissime che Chester, con la stessa domanda di significato, aveva scritto anni prima: “Ci ho provato così tanto sono arrivato così lontano ma alla fine neanche importa”.
Da qualche parte qualcuno dovrà un giorno chiedere scusa a tutti i Chester Bennington del mondo. In quello dove sono adesso lui e Chris, invece, tutto è perdonato e ha trovato un significato.