Cominciarono a chiamarli dinosauri che avevano appena compiuto 40 anni: fu quando gli Stones vennero in Italia nel 1982 e Bob Dylan nel 1984, per quest’ultimo la prima apparizione in assoluto nel nostro paese. Ma i giornali ci ironizzavano su questi “vecchi”. Oggi gli Stones, Dylan, ma anche Springsteen, Paul McCartney, gli Who(che dovevano morire prima di diventare vecchi; due di loro in effetti hanno tenuto fede alle parole di My Generation), Peter Gabriel e altri ancora sono over 70 e sono sempre qui a fare concerti. Ma nessuno osa chiamarli più dinosauri, anche perché fanno tutti concerti più belli di qualunque giovanotto in circolazione.
Su questo argomento, essere anziani, ma suonare meglio di tutti, ci riflette sopra Roberto Brunelli, già giornalista dell’Unità, nel suo nel libro “Rotolano ancora, fenomenologia eretica dei titani del rock” (Spider & Fish, 220 pagine, 12,50 euro).
Il libro raccoglie articoli da lui scritti per quel quotidiano su concerti, dischi e anche interviste (molto interessante quella a Ian Anderrson dei Jethro Tull), ma a differenza di quanto fanno i libri rock che si occupano della cosiddetta golene age del rock (gli anni 60 e 70) qua siamo davanti a una cronaca in tempo reale, scritta in questi ultimi vent’anni, dedicata appunto a quei personaggi citati e altri ancora. Il risultato è che ci troviamo a indagare, cercare di capire, domandarsi cosa rende tutt’oggi questi grandi vecchi quello che sono.
Con il loro permanere nell’arena rock infatti hanno ribaltato ogni regola precostituita del rock, che cioè debba essere un fenomeno per giovani e come siano stati capaci di transitare questa musica nella terza età, dandole un nuovo e sorprendente significato. “Quarant’anni fa molti pensavano che sarebbe stato un lampo, qualche anno di rock’n’roll e poi chissà. Gli Who si vedevano morti da lì a poco, Jagger era sicuro che l’orgia di ritmo e follia sarebbe finita nel giro di pochi mesi (…) Li guardi stupefatto e ti chiedi come è possibile che una musica che doveva essere ontologicamente giovane oggi faccia ancora ribollire gli stadi e riempia di significato la cultura del secondo millennio? Come è possibile che i ragazzi di ieri e quelli di oggi condividano molto spesso gli stessi sogni musicali, le stesse utopie, gli stessi ritmi?” si domanda Brunelli nella lunga serie di scritti che più che articoli usa e getta come ci hanno sempre dato i quotidiani, sono autentiche pagine di scrittore imprestato al giornalismo, approfonditi, affascinanti, belli da leggere.
Brunelli cerca la risposta per tutto il libro, ma già Alberto Crespi nella sua introduzione aveva individuato benissimo la risposta: “Amare i Beatles come fossero Dante Alighieri non è una forzatura (…). Il paradosso del rock è tutto lì (…) è un’arte che contiene tutte le arti. Non potrete mai partire dal jazz per arrivare a John Ford o a un altro grande del cinema: molto semplicemente la strada non va da quella parte. Non potrete mai partire dal blues per arrivare ai romanzi inglesi del Settecento e dell’Ottocento: di nuovo, non è quella la direzione. Negli anni in cui il rock è stato immenso e multiculturale cioè dall’esplosione dei Beatles fino al punk una qualsiasi canzonetta poteva essere il punto di partenza per il giro del mondo. Per questo la musica (…) ti parlava e ti accompagnava a lungo: ti parlava di cose stranissime e apparentemente lontanissime da lei, ti accompagnava nel fare il giro del mondo”.
Come disse al sottoscritto il massimo scrittore rock vivente, Greil Marcus, “una canzone di tre minuti può contenere il mondo”.
E’ durata poco, è vero, vent’anni circa, questa epopea, ma fortunatamente abbiamo ancora tutti quei dischi da ascoltare e riscoprire continuamente. E la magia continuerà a riaccadere. Do you believe in magic? chiedeva una vecchia canzone dei Lovin’ Spoonful. La risposta è sì.