FESTIVAL VERDI 2018/ “Attila” al Teatro Regio di Parma chiude l’evento

- Giuseppe Pennisi

Attila è la quarta ed ultima opera del Festival Verdi 2018, tratta da un libretto del tedesco Zacharias Werner, risistemato da Temistocle Solera e da Francesco Maria Piave. GIUSEPPE PENNISI

Attila_Vladimir-Stoyanov-Roberto-Ricci Attila (Vladimir-Stoyanov), foto di Roberto-Ricci

Attila è la quarta ed ultima opera del Festival Verdi 2018. Ho assistito alla prima rappresentazione al Teatro Regio di Parma il 30 settembre. In effetti, solo cinque delle sue 27 opere (I Lombardi alla prima crociata, Nabucco, Ernani, La battaglia di Legnano  e per l’appunto Attila) vengono iscritte al filone “patriottico” che, in quell’epoca, infiammava molto di più altri compositori dei Paesi europei in cui si compiva l’unità nazionale. A mio avviso, unicamente La battaglia di Legnano merita di fregiarsi dell’attributo. Nabucco vi è entrato di straforo: alla prima nel 1842, venne osannato dalla stampa austro-ungarica come epopea della libertà e della religione (loro) contro la barbarie ed i suoi falsi idoli.

Ernani è più libertario e rivoluzionario che patriottico; anche per questo piace tanto ad Emma Bonino. I Lombardi si inserisce addirittura in un solco anti-ottomano (ove non anti-islamico) – a cui, ad esempio, Gioacchino Rossini aveva dedicato ben cinque opere – allora alla moda a ragione dell’irredentismo greco. I lavori successivi di Verdi, specialmente quelli che seguirono la trilogia popolare hanno ben poco di patriottico: Simon Boccanegra, Don Carlo e Aida riguardano la sempre più forte sfiducia nei confronti del potere dello Stato; Un ballo in maschera, la corruzione del Palazzo; La forza del destino il pessimismo cosmico; gli stessi Vespri siciliani sfiorano appena i temi dell’unità nazionale e della liberazione dallo straniero e si concentrano sul tema – a Verdi, che non ha avuto figli adulti, carissimo – dell’amore paterno e, di converso, filiale. Inoltre, Verdi amava vivere nella Milano austro-ungarica e costruì la sua villa a ridosso del confine con il gretto e pettegolo Gran Ducato di Parma e Piacenza. Nominato Senatore del Regno, trovò l’incarico noiosissimo. E non ne fece mistero.

Attila, dunque, è tratta da uno scombinato libretto del tedesco Zacharias Werner, risistemato, alla peggio, da Temistocle Solera e da Francesco Maria Piave. Il nodo è nello scambio politico tra il generale Ezio che appoggerà Attila nella conquista del resto del mondo se l’unno gli lascerà l’Italia (che intende unificare), ma questa vicenda viene inserita in una riedizione lagunare (siamo ad Aquileia) di Giuditta ed Oloferne; Odabella, con la complicità del fidanzato, irretisce l’unno o lo ammazza. A mio  avviso, è più patriottica per gli austro-ungarici – il Re unno è il personaggio più positivo del pasticcio- che per gli italiani,

Sotto il profilo musicale è un lavoro ineguale. Rossini (grande linguaccia) parlò “di Verdi con l’elmo in testa”, la critica inglese e francese (dove l’opera approdò in pieno 1848) parlò di “fanfara dei bersaglieri” – non certo un complimento. Pure il benevolo Guglielmo Barblan, nella monumentale “Storia dell’Opera” dalle Utet, scrisse che i “momenti strumentali descrittivi” rimasero “nella testa di Verdi”. Di impianto donizzettiano, presenta grandi arie (quasi sempre con cabaletta finale), un coro importante e concertati di livello. Dà al basso, al baritono ed al soprano drammatico di coloratura modo di dare sfoggio al loro virtuosismo. Il tenore ha un ruolo, tutto sommato, secondario.

Nella seconda metà dell’Ottocento, quasi sparì dai repertori. Riapparve negli Anni Cinquanta. Negli Usa, divento un cavallo di battaglia di Justino Diaz e Beverly Sills. In Europa ed in Italia, di Samuel Ramey, Nicolai Ghiaurov, Pietro Cappuccilli, Ruggero Raimondi , Christina Deutekom, Cheryl Struder. L’aria più nota è quella” “Dagli immortali vertici” di Ezio. La scrittura più innovativa e più difficile, è l’entrata di Odabella distesa su due ottave con do sovracuto da prendere di forza. Ho spesso avuto difficoltà a comprendere perché sia tanto amata da Riccardo Muti e perché sia stata scelta come opera inaugurale della prossima stagione del Teatro alla Scala.

Nel 2005, recensendo su Milano Finanza un’esecuzione a Roma scrissi: Punto dolente è il maestro concertatore, Antonio Pirolli, a lungo alla direzione musicale dei teatri di Ankara e Istanbul. Temendo una direzione bersagliera, smussa un po’ tutto sino al fine. Dove di fuoco ne mette anche troppo. Nel maggio 2012 sempre a Roma invece, il piglio di Riccardo Muti si è avvertito sin dall’introduzione orchestrale in cui la tinta cupa dei violoncelli e dei fagotti ha correttamente dominato il golfo mistico. Di ottimo livello, poi, l’equilibrio tra buca e palcoscenico. Buona la decisione di dividere questo lavoro diseguale in due sole parti, accentuandone il ritmo. Ascoltai una buona concertazione di Attila da parte di Riccardo Frizza nel 2010, una da dimenticare di Andrea Battistoni pochi mesi dopo. Ancora valida quella di Anton Gaudagno del 1976 (ne esiste una rara registrazione effettuata a Washington). 

Ho concluso che in Attila il maestro concertatore e il direttore del coro fanno la differenza. A Parma, la direzione vigorosa di Gianluigi Gelmetti ed il coro diretto da Martino Faggiani – unitamente alla professionalità di Riccardo Zanellato (Attila) e Vladimir Stoyanov (Ezio) – hanno fatto le differenza in uno spettacolo, tutto sommato, più da stagione lirica di un teatro di tradizione che da festival.  Maria José Siri (Odabella) passa dal verismo al soprano drammatico di coloratura non senza difficoltà, specialmente nella cavatina iniziale. Francesco Demuro (Foresto) è un ottimo tenore lirico leggero ma non adatto ad un ruolo ‘spinto’ come quello affidatogli.

L’allestimento scenico e la regia di Andrea De Rosa (i costumi sono di Alessandro Lai; le luci di Pasquale Mari) sono di ordinaria amministrazione forse a ragione del limitato budget e del fatto che il lavoro è coprodotto con il Teatro dell’Opera di Plovdiv in Bulgaria dove essere adattato ad un differente palcoscenico.

Applausi generosi dal pubblico.

Pur se tratto della drammaturgia di questo allestimento di Attila in altra sede, è utile ricordare che l’opera ha avuto alterne vicende nella considerazione sia del pubblico sia della critica. Verdi  la compose su un mediocre libretto di Temistocle Solera (a cui rimise mano Francesco Maria Piave). Si basava su un dramma eroico del tedesco Zacharias Werner. Dato che gli unni potevano essere  tra i suoi pro-genitori, Werner  non doveva avere tanto in antipatia né il barbaro re né le armate sotto le quali, secondo la leggenda, il suolo non fioriva più. Inoltre, l’opera era stata commissionata da La Fenice di Venezia, dove ebbe la “prima” il 17 marzo 1846; allora la città lagunare (parte del dramma  si svolge  ad Aquileia) era parte integrante dell’Impero austro-ungarico, la cui censura non ravvisò nulla di disdicevole né nel testo né nella musica.

Nonostante ciò, è stata erroneamente considerata, per decenni, come l’opera risorgimentale “par excellence” di Verdi; questo merito (più presunto che effettivo) le assicurò fortuna  sino al 1870 o giù di lì seguito da un lungo declino sino a tempi recenti. Riapparve, in effetti, negli Anni Cinquanta. 

Negli Usa, diventò un cavallo di battaglia di Justino Diaz e di Beverly Sills. In Europa, e in Italia, di Samuel Ramey, Nicolai Ghiaurov, Pietro Cappuccilli, Ruggero Raimondi, Christina Deutekom, Cheryl Strudel. In Italia è stata “ripescata” da Muti e Pizzi al Maggio Musicale Fiorentino all’inizio degli Anni Settanta; Muti e Pizzi ne hanno promosso la diffusione in questi ultimi quaranta anni circa. 

È un’opera per voci più che per orchestra. Anche nell’Ottocento la critica inglese e francese paragonò alcuni passaggi alla “fanfara dei bersaglieri”, nonostante, nel lavoro, Verdi avesse eliminato la banda (quasi sempre presente in opere precedenti) e limitato il ruolo degli ottoni. Pochi i momenti strumentali descrittivi, pure se la laguna e le alture (con l’incontro tra Attila e Papa Leone) ne fornissero abbondante materia. Domina il melodramma a pezzi “chiusi”, scene con aria cabalette e concertati per dare sfoggio al virtuosismo dei cantanti; la protagonista sarebbe dovuta essere la Giuseppina Strapponi, ma la parte (estremamente ardua) venne ceduta  a Sophie Löwe.

Poco risorgimentale – a pensarci bene – la vicenda. Da un lato, un tentativo di scambio politico – oggi si parlerebbe di “pateracchio” – tra il generale Ezio che appoggerà Attila nella conquista del resto del mondo se l’Unno gli lascerà l’Italia (che intende unificare). Da un altro, la vicenda di Giuditta ed Oloferne trasportata in pieno medio-evo; la vergine Odabella, con la complicità del fidanzato Foresto, irretisce l’unno o lo ammazza.

Nelle interpretazioni moderne, Odabella appare attratta fisicamente ed emotivamente da Attila. Tra Idar Abdrazakov (Attila nella edizione romana) e Giuseppe Gipali (Foresto), poche donne avrebbero esitato a non scegliere il letto del primo. Per di più, il tenore è trattato abbastanza male nella partitura  (rispetto al ruolo centrale che ha in altre opere del Verdi trentenne): due arie piuttosto strillate nella seconda parte.
Sotto il profilo vocale, Abdrazakov è un Attila pieno di sfumature, dal fraseggio accurato, dagli acuti controllati, dalla discesa elegante in tonalità gravi e dal legato sensuale. Gipali, invece, il 25 maggio non era in una buona serata, specialmente: uso eccessivo del falsetto, troppi “do” di gola nella prima parte, forzature per  essere stentoreo nella seconda.

Anche nell’agosto 2010, a Macerata, Gipali mi era parso un più schiacciato tra l’Attila fortemente erotico di Nmon Ford e la Odabella sensuale di Maria Agresta. Di grande livello, in questa produzione, Odabella di Tatiana Serjan (un vero soprano drammatico di agilità) e Nicola Aliamo (un Ezio con tutte le doti del buon baritono verdiano). A Muti il merito di rendere musicalmente credibile, questo ineguale pasticcio di un Verdi frettoloso e con l’urgenza di guadagnare per saldare debiti.





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