GREIL MARCUS/ Quando scrivere di musica (e di Bob Dylan) era un’arte

- Paolo Vites

Pubblicato in Italia dalla casa editrice Odoya il nuovo libro dello scrittore americano Greil Marcus dedicato a Bob Dylan. La recensione di PAOLO VITES

marcus_R400 La copertina del libro di Greil Marcus

A Woodstock, dove si teneva il più significativo e dirompente (in termini di impatto sulla società reale) festival di tutti i tempi, nell’agosto 1969, lui c’era. Ad Altamont, pochi mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno, dove si teneva un altro festival rock che con l’assassinio di uno spettatore mandava a quel paese quanto di buono si era intravisto a Woodstock, lui c’era. Al Winterland di San Francisco, nel novembre 1976, dove quella generazione che aveva sognato di cambiare il mondo a suon di chitarre ballava il suo ultimo valzer davanti alle telecamere di Martin Scorse, lui c’era. E in tantissimi altri posti.

Soprattutto, Greil Marcus era alla scrivania della più prestigiosa e leggendaria rivista rock di sempre, quel “Rolling Stone” sulla cui copertina, almeno un tempo, pur di apparire, un musicista avrebbe venduto l’anima al diavolo, o la madre al vicino di casa. Dipende dal tipo di musicista.
In realtà ci rimase per poco, la fine degli anni Sessanta e i primissimi Settanta, per poi passare a riviste concorrenti come Creem e infine decidere che scrivere di musica rock sì è bello, ma non abbastanza.

Dalla metà degli anni Settanta Greil Marcus alterna i suoi scritti rock alla professione di professore universitario: insegna American Studies all’università di Princeton, Berkeley e Minnesota e alla New School di New York. Con queste credenziali Marcus ha dato vita a qualcosa che prima di lui era inedito: scrivere cioè di rock esattamente come si scrive di letteratura o di politica, Shakespeare o Bill Clinton per capirci, dando alla musica rock la giusta valenza sociale e culturale che merita.

Un libro come “Mystery Train”, ad esempio, pubblicato a metà degli anni Settanta, ha cambiato per sempre il modo di scrivere e di leggere di musica, almeno nei paesi anglo sassoni – in Italia si è sempre in ritardo di qualche decennio su tutto. La casa editrice Odoya pubblica adesso il suo ultimo volume, una raccolta di tutti gli articoli scritti nel corso di 40 anni dedicati all’artista da lui più studiato e sondato, Bob Dylan (“Bob Dylan, scritti 1968-2010″, 472 pgg, 30 euro) tradotti in italiano.

Un bello sforzo che si spera in un Paese come il nostro abituato al gossip più che alla recensione musicale approfondita, venga apprezzato. Un viaggio attraverso non solo Marcus e Dylan, ma l’America degli ultimi 40 anni, per l’autore americano infatti un tutto indissolubile. Marcus d’altro canto, coniò una frase che esprime meglio di ogni altra il senso stesso della musica rock: “Una canzone rock di tre minuti può contenere tutto il mondo”.

E allora questo viaggio comincia dalla leggendaria recensione di uno dei dischi meno riusciti di Bob Dylan, quel “Self Portrait” pubblicato nel 1970 la cui recensione cominciava con le famose parole: “Che cosa è questa m…?”. Un a espressività pienamente in tema con lo stile alternativo del periodo storico e anche una dichiarazione di coraggiosa indipendenza di giudizio che ha sempre caratterizzato il prosieguo dell’opera di Greil Marcus.

Anno dopo anno, Marcus coglie dunque Dylan all’opera: memorabile ad esempio è la recensione dei concerti del come “Back Tour” del 1974, quando Dylan tornava dal vivo dopo otto anni di assenza dai palcoscenici (fa notare giustamente Riccardo Bertoncelli, decano della critica musicale italiana, nella sua introduzione al libro, rispetto alle abbondanti pagine che Marcus aveva a disposizione negli anni Settanta per scrivere una recensione, di come oggi ci si sia ridotti a parlare di un disco nello spazio concesso dai direttori di “1200 battute firma compresa”…):

«… è un lato di The Band che Bob Dylan porta quasi sempre alla luce. Mentre lui occupa le luci della ribalta, loro sono liberi di seguire il proprio cuore. Suonando con lui traggono una certa energia che non ricavano l’uno dall’altro, e in ogni caso non riescono a gestire i suoi fraseggi tortuosi con arrangiamenti puliti. Devono stabilire il ritmo, suonando per esso e contro di esso, rischiando perfino di far collassare la canzone per avere la possibilità di toccare le emozioni di chiunque ascolti (…). Forse questo è uno dei motivi per cui vale la pena porsi la domanda: che cosa significa tutto questo? a proposito dell’esibizione di Dylan (di solito vale la pena chiederselo a proposito di qualsiasi cosa)».

Ecco: è in questo interrogare se stesso e il lettore di fronte all’ascolto che ha appena fatto, la grandezza letteraria di Greil Marcus, la capacità di condurre se stesso e il lettore verso continui territori insondati, come fa ogni vera canzone rock: curiosare nel mistero dell’esistenza. La prosa di Marcus viaggia allo stesso ritmo dei brani di cui parla, (“Nel vero rock’n’roll la melodia è inseparabile dal ritmo e dal tempo”). Alle parole poc’anzi citate, ci aggiungiamo anche queste, sempre dalla medesima recensione del concerto di Bob Dylan e The Band all’Oalkland Coliseum Arena dell’11 febbraio 1974:

«Un uomo si avventura nel mondo: è tormentato dalle sue trappole, sedotto dai suoi piaceri. Se è uno sciocco, è determinato a non rimanere tale; cerca di interpretare i segni che Dio e il diavolo hanno sparso per il mondo e si forma lentamente una posizione morale. Compie scelte, a causa delle quali soffre».

Ecco: ditemi dove avete mai letto parole del genere a proposito di un concerto rock (va bene che la musica di allora era talmente straordinaria che poteva ispirare tali concetti, però non è la sola giustificazione).

Se una critica si può fare a questo libro, è quella di indugiare nell’aver messo insieme articoli magari evitabili, che citano al loro interno Bob Dylan per una riga, ma parlano di tutt’altro o quasi. Ma in fondo è tutto connesso, in quel gran mare che è l’America, come disse una volta lo stesso Dylan. Ed ecco allora la lettura preziosa intitolata “La musica folk oggi: l’orrore”, una disanima dell’importanza incancellabile di quel patrimonio popolare senza il quale Dylan non sarebbe mai diventato Dylan e che meglio di ogni altra forma musicale ha indagato nell’abisso del cuore dell’uomo. Quella “vecchia e strana America”, come un altro libro dello stesso Marcus si intitolava (“That Old Weird America”).

Così com’è di fascino assoluto leggere “Una gita all’Hibbing High” in cui Marcus, recandosi a visitare la scuola che Dylan frequentò da ragazzo negli anni Cinquanta, è capace di immaginare e rendere plausibili tutti gli sconvolgimenti che il rock’n’roll portò alla storia del mondo moderno.
Poesia in parole, come le grandi canzoni rock. E di pagine come queste, è zeppo questo straordinario libro. Un viaggio che, cominciato nel 1970, termina una notte del 2008, durante un altro concerto di Bob Dylan, che per pura coincidenza si tiene proprio nell’election day, il giorno in cui viene annunciato il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Che non è uno qualunque, ma è il primo afro-americano a prendere possesso della Casa Bianca, qualcosa che il Dylan che strimpellava Blowin’ in the Wind non avrebbe mai, allora, osato immaginare. E con lui l’intera America. Ma si sa, i tempi sono cambiati.







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