La cosa grandiosa dei Sigur Rós è che è uno di quei gruppi che si ama o non si sopporta, che lo si vive visceralmente o ci si addormenta alla terza canzone. Certo conta l’attitudine e il momento e anche il clima dentro e fuori di noi, ma questo vale per tutti i generi musicali.
La band islandese (post-rok-ambient?) ha ormai abituato i fan ad attendere qualche anno tra un album e l’altro. Tra questo nuovo lavoro e “Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust” sono passati quattro anni e tolto qualche episodio sporadico, tra greatest hits e uscite soliste di Jónsi Birgisson (voce e chitarra) si erano un po’ perse le tracce dei quattro isolani.
Quattro anni fa li avevamo lasciati con un disco buono, che guardava alle diverse anime del gruppo e strizzava l’occhio a un genere più noise che melodico, alla Animal Collective, certamente più esportabile che il loro sound oscuro e spesso troppo lontano dai semplici ascolti occasionali. Il cantato in inglese faceva il resto. “Valtari” (“rocker” in islandese) decisamente sa di altro.
È cantato in islandese, non in hopelandic, la lingua inventata da Jónsi allo scopo di usare la sua voce come uno strumento musicale e che ormai era marchio di fabbrica della band, ma neanche in inglese.
Sa di lavoro fatto più per se che per il pubblico, un po’ un riportando tutto a casa, una sorta di ritorno alle radici. Anche l’album solista che ha portato il cantante per un paio d’anni in tutto il mondo ha innestato questa voglia di scrivere veramente un testo e sentirlo con tutto se stesso più che interpretare i pezzi. Lo spartiacque per chi ama o chi odia il gruppo (e questo album) lo si ha con Varúð, il terzo brano. Se si è disposti a resistere alle melodie eteree e si è sopravvissuti alle immersioni soffocanti di Ég anda (Respiro) e alla grandiosità di Ekki múkk, si è pronti a immergersi nelle atmosfere che i ragazzi di Reykjavik hanno creato.
È un susseguirsi di tuffi nella voce di cristallo di Jónsi e dai crescendo che portano lontano e sembra sempre di essere in volo a filo di un terreno brullo e ghiacciato, da soli. I musicisti lo hanno definito “un nuovo punto di partenza, verso un nuovo percorso” e questo guardarsi indietro non fa che confermare quello che si prova sentendo Dauðalogn (Morte lenta). Le diverse aperture classiche del brano sono una decisa inversione a U rispetto agli ultimi lavori. La voce fragile e forte, che arriva da dentro e che esplode nel cielo senza riserve. La grandiosità di Varðeldur ha dell’incredibile.
Il brano, tirato all’inverosimile da Jónsi Birgisson, ha una coda che non sembra mai finire se non lentamente: si lascia dietro tutti gli strati di cui è ricoperto per far sopravvivere una leggera melodia di pianoforte. Ricorda tanto i discorsi lasciati aperti in Ágætis byrjun.
Due brani strumentali chiudono il disco: gli oltre 8 minuti di Valtari e i 7 minuti abbondanti di Fjögur píanó. Entrambe animate dai frammenti di voce e da un pianoforte gracchiante che galleggia attraverso diversi strati sonori, sintetizzati e no.
I Sigur Ros hanno creato un lavoro in cui c’è un’attenzione alla forma e al minimalismo oscuro che toglie ogni dubbio sulla maturità, musicale e umana del gruppo. Non li si era mai sentiti così attenti ai particolari a alla serietà della loro musica. “Alla fine non è così che si devono affrontare i sentimenti?” ricorda Jónsi. Questo disco è una valanga al rallentatore, “Valtari” è la calma, non la tempesta. Preparatevi.
(Raffaele Concollato)