Nicaragua: preti costretti a consegnare le omelie alla polizia. Il regime Ortega intensifica persecuzione, la Chiesa resiste tra arresti e censura

Mentre il regime di Daniel Ortega e Rosario Murillo rafforza la sua morsa in Nicaragua, i preti in nel Paese si trovano a vivere una persecuzione che ha del surreale: ogni settimana, devono presentarsi obbligatoriamente negli uffici di polizia per interrogatori dettagliati sulle loro attività, consegnando persino le bozze delle omelie domenicali.



“Vogliono sapere cosa diciamo ai fedeli, quali parole usiamo, se osiamo criticarli“, è il drammatico racconto di un religioso anonimo della diocesi di Matagalpa, la stessa del vescovo Rolando Álvarez, detenuto per mesi e poi esiliato a Roma nel 2023.

Il controllo è diventato ormai puntuale e sistematico: alcuni sacerdoti hanno addirittura un funzionario assegnato a monitorarli 24 ore su 24, un “ombra” che registra spostamenti, incontri e anche i loro sermoni. La scusa ufficiale? Prevenire “ingerenze esterne”, ma in realtà si tratterebbe di un tentativo di piegare la Chiesa, ultimo baluardo di dissenso in Nicaragua.



L’escalation ha raggiunto il suo picco in seguito alle dichiarazioni di monsignor Álvarez, che a febbraio ha ribadito da Roma di essere ancora il legittimo vescovo di Matagalpa, ma risposta del governo non si è fatta attendere: il Vaticano è stato definito “covo di pedofili”, la Chiesa locale “un nido di bugiardi”.

Nel frattempo, nelle parrocchie, i preti devono sottomettersi a regole kafkiane: niente processioni, Via Crucis pubbliche vietate, e – soprattutto – zero allusioni alla crisi politica.

“Se citi il Vangelo sulla giustizia, ti accusano di sovversione”, spiega un altro sacerdote; con più di 222 violazioni della libertà religiosa registrate nel 2024 e 46 arresti arbitrari, il Nicaragua di Ortega sta scrivendo un vero e proprio manuale sulla repressione clericale.



Nicaragua: quando la fede diventa un reato

La persecuzione nei confronti dei preti non è una questione esclusivamente ideologica ma affonda le sue radici nella paura: da quando Álvarez ha rifiutato il silenzio, portando alla luce torture e abusi, il regime ha moltiplicato le restrizioni.

Oggi, persino organizzare un battesimo richiede l’approvazione della polizia: “Vengono a casa mia, chiedono il programma settimanale delle messe, vogliono nomi e cognomi dei partecipanti”, è la cruda testimonianza di un parroco di Estelí. Il rapporto di Christian Solidarity Worldwide rivela che in alcune diocesi, come Jinotega, gli agenti presenziano alle funzioni religiosi, pronti a interrompere discorsi “sospetti”.

Il vero obiettivo è quello di disintegrare la rete di solidarietà ecclesiale, soprattutto nelle zone rurali dove la Chiesa sostiene i soggetti più fragili e vulnerabili: con il 40% dei sacerdoti espulsi o incarcerati dal 2018, le comunità iniziano a faticare enormemente nella gestione dei sacramenti.

Ma nonostante lo scenario drammatico, il coraggio non manca: molti religiosi continuano ad operare in clandestinità, usando messaggi cifrati per coordinarsi, rischiando la propria vita.

Basti pensare che solo a marzo, tre suore sono state costrette all’esilio dopo aver distribuito cibo in un quartiere oppositore, e se Ortega prepara le elezioni del 2026, il Nicaragua pare destinato a trasformarsi in una sorta di gabbia dorata, dove persino pregare diventa un coraggioso atto di resistenza.