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Home » Sanità, salute e benessere » NUMERI COVID/ Perché sui dati Draghi ascolta i medici e non gli statistici?

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NUMERI COVID/ Perché sui dati Draghi ascolta i medici e non gli statistici?

Giuseppe Arbia
Pubblicato 17 Gennaio 2022 - Aggiornato alle ore 08:32
(LaPresse)

(LaPresse)

Per combattere il Covid non bisogna fornire meno dati, ma di più e di più dettagliati. Occorre rendere sistematica una indagine sulla sieroprevalenza

In questi ultimi giorni si è tornato a parlare di nuovo di dati, ma forse non nella giusta prospettiva. Hanno destato, infatti, clamore le dichiarazioni del professor Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive e tropicali dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova.

In una sua recente intervista dell’11 gennaio scorso rilasciata ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, di Radio Cusano Campus, il medico ha criticato duramente le modalità con le quali i dati relativi alla pandemia da Sars-cov-2 vengono diffusi, richiedendo con forza di interrompere la diffusione giornaliera dei dati in quanto questi, a sua detta, sarebbero falsati ed indurrebbero “ansia alle persone”. Il primario ha anche criticato i criteri di registrazione dei decessi in quanto, a sua detta, “se il paziente entra in ospedale per tutt’altro, ma è positivo e muore, viene automaticamente registrato sul modulo come decesso Covid”.


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A conclusione di questa sua critica il medico ha rivolto un accorato appello a Draghi “perché ascolti un po’ più i medici e un po’ meno i burocrati”.

Che i dati relativi al Covid-19 siano imperfetti ed insufficienti è sotto gli occhi di tutti. Chi scrive (ed invero, tutta la comunità scientifica degli statistici) è stato tra i primi a contestarne la validità (si vedano gli articoli apparsi nel marzo 2020 su Giustizia Insieme e sul Sussidiario nell’aprile dello stesso anno e a richiedere di porvi rimedio intervenendo sui criteri di raccolta degli stessi.


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Tuttavia, se Bassetti individua bene il male da curare, essendo egli medico e non statistico, fallisce in maniera clamorosa la terapia, la quale rischia di apportare al malato più danni che benefici.

Infatti, i problemi legati all’imprecisione dei dati non possono essere eliminati eliminando la diffusione dei dati stessi.

Interrompere la diffusione giornaliera dei dati, infatti, violerebbe innanzitutto il diritto all’informazione del cittadino, sancito dall’articolo 21 della Costituzione, il quale è un risvolto passivo della libertà di manifestazione del pensiero e quindi, in ultima analisi, una conseguenza stessa del principio democratico.


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Se così facessimo andremmo a ripercorrere quanto fu fatto in occasione della pandemia Spagnola del principio del secolo scorso, che fu chiamata appunto “Spagnola” (anche se con tutta probabilità proveniente dal Kansas), in quanto la sua esistenza fu ammessa all’inizio soltanto dalla Spagna e negata, invece, dagli altri paesi europei i quali, in quanto belligeranti, erano sottoposti alla censura di guerra. Anche in quel caso la censura colpì in quanto non si voleva “mettere l’ansia” alla cittadinanza coinvolta nel confitto, ma, in conseguenza di ciò, in Italia non si seppe mai se i militari che non tornavano dal fronte avevano perso la vita a causa del conflitto o per la malattia. Non credo questo sia un esempio da imitare e ci farebbe tornare indietro di un secolo.


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In effetti, in un paese avanzato come il nostro, la carenza di informazioni affidabili non può in alcun modo essere combattuta celando il dato stesso, ma proprio al contrario, diffondendone di più ed intervenendo con decisione e con strumenti adeguati per correggerne le distorsioni.

Tali strumenti esistono, manca solo la volontà di metterli in campo.

In tutti gli ambiti delle nostre attività le decisioni politiche vengono supportate da dati empirici. “Non puoi gestire quello che non puoi misurare” diceva Peter Drucker, il padre dell’economia manageriale. Per questa ragione l’Istituto nazionale di statistica (Istat) rilascia periodicamente i risultati di indagini sulla base delle quali vengono prese le più importanti decisioni del paese.


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Ad esempio, per adeguare periodicamente i valori monetari (ad esempio il canone di affitto o l’assegno dovuti al coniuge separato) l’Istat produce ogni mese l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati. Con la stessa periodicità l’Istat rilascia anche l’indice della produzione industriale, il quale è uno degli indicatori principali dell’andamento delle attività economiche del paese. Ancora, sempre con cadenza mensile, attraverso l’indagine delle forze di lavoro, vengono forniti dall’Istat i dati relativi all’occupazione, alla disoccupazione e ai fenomeni ad esse connessi i quali sono fondamentali per comprendere la fase economica che sta attraversando il paese.


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Tali indagini sono di tipo campionario: l’Istat, infatti, non osserva ogni mese tutti gli scambi per ricavare un indice dei prezzi o non intervista tutti i cittadini per identificarne lo stato lavorativo. Tuttavia, i dati non vengono nemmeno raccolti senza un criterio, così come capita. Non si vistano le pagine di Facebook per verificare lo stato lavorativo dei cittadini, né gli impiegati dell’Istat si recano nei negozi prossimi alla loro sede per verificare l’andamento dei prezzi solo perché questo sarebbe un modo conveniente di raccogliere dati. Le indagini Istat, al contrario, vengono condotte con preciso rigore, seguendo una metodologia consolidata a livello mondiale che suggerisce un “disegno campionario”, il quale garantisce l’affidabilità del risultato. Sulla base di questi dati vengono poi prese importanti decisioni di un’importanza cruciale per il paese, ma, essendo i dati raccolti con criterio da un’istituzione di riconosciuta serietà e terzietà, nessuno ha motivo di contestarli: essi sono detti “dati ufficiali” e vengono accettati come la verità.

Ciò non vuole dire necessariamente che essi siano rappresentino la verità. Tuttavia, se in un certo istante di tempo i dati, per qualche ragione, sembrassero poco credibili, a nessuno verrebbe in mente di proporre di non diffonderli. Ci sarebbe al contrario una levata di scudi per richiedere di chiarirne il significato ed investimenti per migliorarne l’affidabilità.

Non così per un fenomeno pure cruciale e rilevante come la pandemia da Covid-19.

Già nel marzo del 2020 al principio della pandemia, insieme ad alcuni illustri colleghi statistici, segnalavamo l’importanza di una raccolta di dati mirata e metodologicamente affidabile per fondare con precisione le importanti decisioni relative al controllo della diffusione del virus in Italia. All’epoca, non sorprendentemente, non venimmo ascoltati. L’emergenza aveva, infatti, trovato tutti impreparati e nei primi mesi non c’era da attendersi un’immediata attenzione a questo aspetto, dato che essa era tutta concentrata sulle carenze ospedaliere e sulla gestione dello stato di emergenza.

Tuttavia, dal momento dell’insorgenza della pandemia ad oggi sono trascorsi circa due anni ed abbiamo attraversato periodi di relativa tranquillità (le due estati del ’20 e del ’21, ad esempio) nei quali la pressione sugli ospedali è calata e ci si è addirittura illusi di essere usciti dalla pandemia. Tuttavia, anche in quei momenti, nulla si è mosso in questa direzione.

Non è utile guardare però indietro e recriminare. Ci troveremo a breve di nuovo in situazioni di relativa tranquillità (con tutta probabilità a partire da questa primavera), e sarà allora che bisognerà intervenire con decisione per migliorare i criteri di raccolta e di diffusione dei dati.

Per combattere l’epidemia non bisogna fornire meno dati. Occorre fornirne di più e di più dettagliati. In tal senso c’è qualcosa che possiamo fare da subito.

È vero, ad esempio, che nel numero totale degli infetti non si distingue tra sintomatici, sintomatici gravi e asintomatici, ma la soluzione non è quella suggerita dal professor Bassetti, di non fornire più il dato totale, ma, al contrario, di fornire semplicemente (ed è già possibile allo stadio attuale del sistema di raccolta) un dato maggiormente dettagliato che distingua queste tre categorie di infetti molto diverse. Anche su questo aspetto è da tempo che insisto, come ben sanno i lettori assidui di queste colonne. Già nel dicembre 2020 insieme ad altri colleghi abbiamo messo a punto una metodologia in grado di stimare il numero degli infetti osservando che essi erano circa sei volte il dato rilevatoo tramite i tamponi per effetto di un’alta incidenza degli asintomatici che sfuggivano alla rilevazione. Il nostro metodo fu pubblicato su una rivista scientifica, ma non fu mai applicato nel caso del nostro paese.

Laddove gli attuali sistemi di raccolta dei dati non riescono a fornire risultati affidabili occorre invece intervenire con un’indagine ad hoc sulla falsariga delle citate indagini Istat.

In effetti l’Istat nel luglio 2020 mise in campo un’indagine potenzialmente utile: l’indagine sulla sieroprevalenza dell’infezione da virus Sars-Cov-2 realizzata in collaborazione con il ministero della Salute e la Croce rossa italiana. Tale indagine aveva l’obiettivo di capire quante persone avessero sviluppato gli anticorpi al Coronavirus, anche in assenza di sintomi. L’indagine prevedeva l’osservazione di un campione di 150mila individui, ma ha parzialmente fallito il proprio obiettivo perché più della metà degli intervistati si rifiutò di rispondere, probabilmente perché, essendo in prossimità dell’estate, temeva di dover rinunciare alle ferie costretti in quarantena pur essendo asintomatici. Inoltre, l’indagine non è mai stata ripetuta nel tempo.

Un’indagine su questi temi deve, invece, essere ripetuta periodicamente nel tempo al pari delle altre indagini Istat. Come gli statistici ben sanno, non occorrono campioni molto grandi e costi elevati per giungere a conclusioni affidabili: occorrono solo campioni ben fatti.

Occorre dunque un’indagine multiscopo, continuativa, rigorosamente programmata, la quale rilevi periodicamente grandezze quali il numero dei sintomatici e degli asintomatici, che includa risultati circa il sequenziamento al fine di stimare l’incidenza delle diverse varianti, che segua nel tempo una coorte di persone che sono state infettate in modo da valutare gli effetti del Covid-19 sulla vita delle persone, per comprenderne l’impatto sulla società e sostenere le scelte ai diversi livelli di governo e ambiti di responsabilità.

Mi sia consentito, per amore di precisione, una chiosa. Non risponde al vero ciò che afferma Bassetti affermando che contiamo come decessi da Covid anche “quelli che vengono ricoverati per un braccio rotto e risultano positivi al tampone”. In tal senso, il Rapporto ad interim su definizione, certificazione e classificazione delle cause di morte dell’Istituto Superiore di Sanità chiarisce in maniera inequivoca (alla pagina 8) che affinché un decesso possa essere classificato come dovuto al Covid, devono verificarsi tutte e quattro le seguenti circostanze:

1. Il decesso è occorso in un paziente definibile come caso confermato di Covid-19;

2. Si è in presenza di un quadro clinico e strumentale suggestivo di Covid-19;

3. Vi è assenza di una chiara causa di morte diversa dal Covid-19 o comunque non riconducibile all’infezione da Sars-Cov-2 (per esempio un trauma);

4. Si è in assenza di periodo di recupero clinico.

Occorre dunque assolutamente proseguire con la pubblicazione del report serale, semmai incrementando la quantità e la qualità dei dati offerti e migliorando la trasparenza ed il sistema di comunicazione degli stessi.

Concludo, infine, anche io, come il collega Bassetti, con un appello al premier Draghi perché, sulle questioni relative ai dati, ascolti un po’ più gli statistici e un po’ meno i medici.

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