C’è una sequenza, proprio all’inizio di Over the Moon, che acuisce la sensazione di delusione, di occasione sprecata: il disegno nel foulard della mamma della bambina protagonista si anima per raccontare la leggenda di Chang’e, la dea della Luna. In quell’animazione a matita si scorge il talento di Glen Keane, regista del film e animatore di alcuni classici Disney come La sirenetta o il corto Dear Basketball che gli fece vincere l’Oscar assieme a Kobe Bryant.
Peccato che quel talento sia messo da parte per quasi tutto il film, che racconta la storia di Fei Fei, bambina cinese che dopo aver perso la mamma, impreparata al nuovo matrimonio del padre, decide di andare a parlare con la dea, il cui amore è rimasto eterno dopo la separazione dal marito arciere e l’immortalità della donna volata sulla Luna in attesa del ricongiungimento. Vorrebbe che la dea ricordasse al padre il senso del vero amore, ma l’incontro con la donna sarà molto diverso dalle attese.
Il senso della mitologia e la scoperta del folklore diventano, nella sceneggiatura di Audrey Wells, materiale per un racconto fiabesco che nel senso del viaggio e dell’avventura guarda alla Pixar, mentre riscopre i vecchi film Disney nella sua struttura di film con canzoni. Il problema è come queste due derivazioni si mescolino tra loro, il modo in cui Keane – esordiente nel lungometraggio – le fa interagire.
A una prima parte caratterizzata come una commedia familiare americana si contrappone il cuore del film, ossia l’avventura spaziale sulla Luna, in cui i toni caldi e tenui dell’inizio vengono spazzati da un’ondata di colori fluorescenti quasi accecanti, di personaggi casinisti, di rumore e canzoni ingombranti. È un film evidentemente pensato per i più piccoli, in età scolare, e quindi potrebbe andare bene così, quello che emerge però è una stanchezza ispirativa preoccupante.
Quando appare Chang’e, in mezzo a un palco, acclamata dai suoi sudditi mentre canta una canzone disco-pop, parte una deriva stilistica, estetica e narrativa che accomuna il film a un qualunque prodotto da merchandising, in cui forme, colori, disegni e suoni non hanno il minimo interesse emotivo, la minima considerazione artistica, ma servono a una vetrina che sfrutti cinicamente ciò che dovrebbe piacere ai bambini. Non c’è un’idea vincente, una trovata affascinante (esclusa la sequenza citata all’inizio), un personaggio davvero riuscito, le emozioni – anche quelle basiche come la risata o il pianto – vengono sacrificate alle sensazioni, alla loro versione superficiale.
È paradossale che un film che vorrebbe usare l’immaginazione per sconfiggere il cinismo risulti così cinico nello sfruttare l’immaginazione dei bimbi e l’immaginario folk di una nazione come la Cina che il film (distribuito in streaming da Netflix) lo ha anche prodotto: non è questione di riciclare materiale altrui in modo spudorato, ma di abbassare tutto al grado zero dell’intrattenimento, accontentandosi del minimo che possa interessare ai più piccoli, come se Keane fosse diventato una babysitter e non un regista, un artista. Spiace soprattutto per chi, genitori e soprattutto figli, vorrebbero dallo schermo qualcosa di più.