Il piano di pace di Trump per Gaza potrebbe non fare i conti con quello che vogliono le due popolazioni, israeliani e palestinesi

La Casa Bianca ha diffuso un piano di pace in 20 punti, proposto dal presidente Donald Trump e accettato da Benjamin Netanyahu, con l’obiettivo di porre fine alla guerra nella Striscia di Gaza. Il progetto prevede la trasformazione dell’area in una “zona deradicalizzata e libera dal terrorismo”, con cessate il fuoco immediato, ricostruzione sotto supervisione internazionale e un’amministrazione provvisoria guidata da un’autorità esterna, che farebbe capo a Tony Blair.



Diversi Paesi arabi – tra cui Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Qatar ed Egitto – hanno accolto positivamente l’iniziativa, così come l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che ha parlato di “sinceri sforzi di pace”.

Di segno opposto la reazione della Jihad Islamica, un gruppo militante palestinese che combatte al fianco di Hamas a Gaza: ha criticato duramente il piano, affermando che alimenterebbe ulteriori aggressioni contro i palestinesi. “È una ricetta per una continua aggressione contro il popolo palestinese. In questo modo, Israele sta tentando, tramite gli Stati Uniti, di imporre ciò che non è riuscito a ottenere con la guerra. Pertanto, consideriamo la dichiarazione americano-israeliana una formula per incendiare la regione”.



Resta poi l’incognita decisiva: Hamas. Da sempre il movimento islamista rifiuta il diritto di Israele a esistere e basa la sua legittimità interna proprio sulla lotta armata. Accetterà questa proposta? E se lo farà, sarà una scelta sincera o solo uno stratagemma per guadagnare tempo, riorganizzarsi e ottenere la liberazione dei 250 prigionieri palestinesi inclusi nell’accordo? È difficile credere che Hamas rinunci davvero alla sua battaglia, che non è soltanto politica ma soprattutto religiosa.

Per capire come si sia arrivati a questo punto occorre fare un passo indietro. Nel 1947 le Nazioni Unite proposero la spartizione della Palestina mandataria in uno Stato ebraico, uno arabo e Gerusalemme sotto controllo internazionale. Gli ebrei accettarono, gli arabi rifiutarono, e la guerra del 1948 ridisegnò la mappa: Israele ampliò i propri confini, mentre la Cisgiordania fu annessa alla Giordania e Gaza passò sotto l’Egitto. Lo Stato palestinese non nacque. Nel 1967, con la guerra dei Sei giorni, Israele conquistò Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Da allora i territori palestinesi sono rimasti sotto occupazione, con autonomie limitate solo dagli anni Novanta.



Quando oggi si parla di due Stati, i confini presi a riferimento sono quelli precedenti al 1967: da un lato Israele, dall’altro una Palestina composta da Cisgiordania e Gaza con Gerusalemme Est capitale. Ma quella mappa contiene già una contraddizione lampante: tra Gaza e Cisgiordania c’è Israele. Uno Stato palestinese nascerebbe quindi già spezzato, frammentato, dipendente da corridoi e collegamenti difficilmente realizzabili.

Bombe di Israele sulla Striscia di Gaza (Ansa)

Dal punto di vista delle leadership politiche, Netanyahu fino a ieri aveva sempre respinto la soluzione dei due Stati, ma oggi ha scelto di accogliere il piano di Trump. L’ANP, guidata dall’OLP, si è detta disponibile a cooperare, ma i sondaggi tra la popolazione palestinese mostrano una contrarietà diffusa: la maggioranza non crede che sia una prospettiva realistica o desiderabile.

Qui emerge il vero nodo: anche se le leadership possono adattarsi alle circostanze, le convinzioni profonde delle popolazioni cambiano molto più lentamente. Molti israeliani rifiutano la prospettiva di due Stati perché la percepiscono come una minaccia alla sicurezza e aspirano a un unico Stato sotto dominio ebraico.

Molti palestinesi, allo stesso modo, non vedono nella proposta un futuro credibile: esausti dall’occupazione e dalla colonizzazione dei territori, ritengono impraticabile una sovranità ridotta a lembi di terra separati. E per una parte consistente, la questione è di principio: considerano la Palestina una terra affidata da Dio ai musulmani, quindi non disponibile a compromessi permanenti: una visione radicata nella fede e nella memoria storica.

La distanza si riflette anche nel linguaggio: quando in Europa o in America si grida “Palestina libera”, si intende Gaza e Cisgiordania libere dalla presenza israeliana; per i palestinesi, invece, “Palestina libera” significa la liberazione di tutta la terra, dal fiume al mare, senza Israele. Lo stesso equivoco emerge quando si parla del riconoscimento dello “Stato di Palestina”: per i governi europei significa legittimare Cisgiordania e Gaza come entità autonoma; per i palestinesi significa riconoscere che l’intero territorio, dal Giordano al Mediterraneo, appartiene a loro.

In questo contesto, l’idea di un nuovo “protettorato” internazionale solleva ulteriori interrogativi. Come vivranno i palestinesi la prospettiva di essere governati, almeno per un periodo transitorio, da un’autorità esterna guidata da Tony Blair? Accetteranno di buon grado una forma di amministrazione che, ai loro occhi, potrebbe ricordare i vecchi mandati coloniali?

Ed è qui che si misura la distanza tra diplomazia e realtà. Da una parte, le cancellerie occidentali e arabe che salutano il piano come un passo avanti verso la pace; dall’altra, due popolazioni che non solo non sono mai state interpellate, ma in larga parte non lo vogliono.

Ecco allora il vero paradosso: mentre l’Occidente continua a recitare il mantra dei due Stati, israeliani e palestinesi vogliono invece un unico Stato, ciascuno sotto il proprio dominio. Il risultato non è soltanto una distanza politica, ma soprattutto culturale: due mondi che usano le stesse parole ma intendono concetti opposti.

D’altra parte, se da quasi ottant’anni queste terre sono martoriate da guerre e conflitti, viene da chiedersi se non sia perché una vera soluzione, in realtà, non esiste. Anche accettando provvisoriamente un compromesso, israeliani e palestinesi continuerebbero a inseguire il proprio ideale di Stato esclusivo, rendendo fragile ogni accordo e illusoria ogni pace duratura. Una convivenza pacifica potrà essere raggiunta solo se ciascuna popolazione imparerà a vedere nell’altra non un nemico, ma un vicino.

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