Pelè è morto: a 82 anni si è spento “O Rey“, da molti considerato il più grande calciatore di tutti i tempi, di sicuro nell’Olimpo dei miti del calcio assieme a Di Stefano, Cruyff, Maradona e pochissimi altri. Difficile spiegare cosa sia stato Pelè nell’immaginario collettivo non solo dei brasiliani, per i quali è stato per decenni un eroe nazionale, ma per tutti gli appassionati di calcio del mondo. Da quando, a soli 18 anni, nel 1958 presentò il suo biglietto da visita nel Mondiale svedese, segnando un gol pazzesco alla Svezia in finale e vincendo la prima Coppa del Mondo della Selecao.
Pelè divenne parte integrante di una filastrocca che, completata da Didì, Vavà e Garrincha, cancellò per un Paese intero l’onta del Maracanazo, l’ignominiosa sconfitta del 1950 contro gli uruguagi, gli odiatissimi “charruas” che avevano beffato Barbosa e tutto il Brasile con i gol di Schiaffino e Ghiggia. Tutto cancellato dal giovane Edson Arantes do Nascimiento, capace di convincere il Ct Feola ad affidagli le chiavi della Selecao a discapito di un altro campione, detto “Mazola” con una Z sola ma in omaggio al grande Capitan Valentino, ovvero José Altafini.
PELÈ, DAL “TRICAMPEÒN” AL SOGNO A STELLE E STRISCE
Era malato da tempo, Pelè, ma non aveva rinunciato a seguire i Mondiali perché, per sua stessa ammissione, niente al mondo era capace di regalare allegria, a lui e al mondo, come un pallone che rotola. Di Mondiali se ne era regalati tre, due da protagonista e quello del 1962 da comprimario a causa di un infortunio, ma riuscendo comunque a mettere la sua firma nella fase a gironi. Nel 1970 invece regalò, a 30 anni, ancora magie come in Svezia ma stavolta sotto un cielo completamente diverso, quello del Messico dove si innalzò per un memorabile colpo di testa in finale contro l’Italia, che disturbò per diversi anni i sogni di Tarcisio Burgnich.
Poi la conquista dell’America e l’avventura ai Cosmos di New York, l’equivalente calcistico dei supergruppi di prog-rock degli anni ’70. Non Emerson, Lake & Palmer ma in quel caso Pelè, Beckenbauer e Chinaglia, l’italiano in mezzo ai miti assoluti. Non bastò neppure “O Rey” a far decollare davvero il calcio negli States, in compenso a carriera finita tornò in Brasile restando un esempio per tanti ragazzi pazzi per il “futebòl”, diventando anche Ministro dello Sport ma mai allenatore. Tutto il resto è già leggenda.