Uscito nei cinema italiani a inizio gennaio, Perfect Days di Wim Wenders dopo quasi un mese continua a essere in cartellone: a tutt’oggi lo hanno visto 555mila spettatori (un italiano su cento) e ben 267 sale italiane lo proiettano. Una cosa poco abituale da quando nel cinema ha iniziato a prevalere la logica dell’usa e getta, nell’attesa del riciclo televisivo.
A tenere in vita nelle sale il film giapponese del regista tedesco non è tanto l’attesa dei verdetti dell’American Academy, dove sarà in lizza per l’Oscar al miglior film di lingua non inglese. No, qui è piuttosto la domanda che sta sostenendo l’offerta, con incassi italiani ormai vicini ai 4 milioni di euro che lo piazzano ai primi posti del box office. E la domanda deriva dal tam tam operato da un pubblico assolutamente trasversale, laicista o credente, ideologizzato o indifferente, impegnato o apatico.
Altri su questo sito hanno già raccontato il film, lasciando però aperta una questione: perché un film dal ritmo lento, dove in due ore sembra quasi che non accada nulla (cosa peraltro nient’affatto vera), colpisce e sta affascinando tanta gente? Non sarà perché mette al centro il bisogno di felicità che, al pari di quello di verità e di giustizia, sta alla base dell’esperienza umana e dell’agire di ogni uomo, quanto meno al livello più elementare?
Dubito che Wenders abbia letto don Giussani, ma a suo modo, attingendo a una sua sensibilità un po’ mistica (da adolescente pensò di farsi prete e negli ultimi anni si è riavvicinato alla fede cattolica, girando anche un film su papa Francesco), ci propone una favola contemporanea il cui protagonista è un uomo che ha posto al centro della sua vita la ricerca della felicità al suo livello più elementare, in diminuendo. Hirayama è un uomo che ha “svuotato” la sua vita di tutto quanto è inutile, “riempiendola” invece di cose umili e semplici: pulire alla perfezione i gabinetti pubblici di Tokyo, innaffiare i suoi bonsai, ascoltare rock anni ’70, leggere buoni libri in edizione economica, fotografare la luce che filtra tra le fronde degli alberi, mangiare sempre “la stessa zuppa” nello stesso locale. Ah, sì: anche aiutare il prossimo venendo incontro ai suoi bisogni ogni volta che se ne presenta l’occasione.
Tutto ciò basta ad affascinare le platee, a conquistarle? Sì, e proprio perché Wenders smuove meccanismi di identificazione, mettendo al centro del suo film il bisogno di felicità che è proprio di ogni uomo. E lo fa proponendo un modello di semplicità e di essenzialità che è quello cui tutti al mondo ambiscono senza riuscirci, senza permettersi di desiderarlo davvero.
Guardiamoci in giro: tutti sostengono che bisognerebbe non farsi schiavizzare dagli smartphone, lavorare di meno, rallentare, fermarsi. La mia parrocchia propone agli adulti la lettura de La pedagogia della lumaca che fu scritto dal maestro di scuola Gianfranco Zavalloni, e ai piccoli Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza di Luis Sepulveda. Bei propositi, attuati da ben pochi. Tutti dicono che i bambini dovrebbero potersi annoiare, che i genitori non dovrebbero riempirgli le giornate 24 ore su 24, ma poi l’horror vacui prevale: se il tuo bambino si annoia deve avere qualche problema… Tutti dicono che bisognerebbe possedere di meno, ma poi nella pratica chi non desidera di avere di più, sempre di più? Il giapponese Hirayama invece ha abbastanza, ha quanto gli basta. Dunque Wenders mostra un uomo capace di attuare ciò che vorremmo per noi, che realizza ciò che vorremmo essere, faticando a riuscirci. Faticando a crederci davvero. Mostra un uomo che “è”, e che è se stesso, senza sforzarsi di apparire quello che non è.
Dunque tema di Perfect Days è il desiderio. Sbagliano i critici, neanche pochi, che vi hanno letto la proposta di cancellare i desideri, unica presunta via verso la felicità. Applicano al film, meccanicamente, una lettura basata su luoghi comuni buddisti. Hirayama di desideri ne ha da vendere, piccoli e grandi. Tutto il film è un continuo mostrare come lui sa realizzarli (vedi elenco fatto sopra).
Poi c’è il tema dell’impegno. Anche qui vale lo stesso discorso. In un mondo contemporaneo dove tutti denunciano la scarsa capacità di impegnarsi, la carenza di dedizione e onestà, chi lo fa come Hirayama subito scandalizza, diventa una pietra dello scandalo. Lui invece dimostra che l’impegno non significa affannarsi, “vivere intensamente”, cioè freneticamente, che è poi uno dei bulimici miti della contemporaneità. Non c’è bisogno di pensare all’evangelico “Marta Marta tu ti inquieti” per notare come Perfect Days sia anche un film sul senso del bene comune, su un’esistenza dove il privato è sociale. Solo in apparenza Hirayama è un rinunciatario. In realtà, è un uomo che a chi lo incontra dice sempre: io ci sono. Di più: io ci sono per te.
Hirayama vive l’attimo. Lo vive pienamente. Ci mostra che si può vivere l’attimo. La sua dedizione al komorebi, a cogliere il riflesso sempre diverso del sole fra le fronde degli alberi, è una esemplificazione quasi religiosa dell’irripetibilità dell’attimo. E la sua filosofia di vita è ben espressa nella frase che dice alla nipotina: “Ora è ora, un’altra volta è un’altra volta”.
La routine non gli fa paura, anzi, per lui diventa un rito, nel senso religioso del termine. Tutte le azioni pratiche che ripete hanno un’evidente valenza spirituale, come in una specie di Ora et labora nipponico. Dalle azioni spicciole, come avvolgere il tatami o prendere il caffè alla macchinetta, a quelle più evidentemente rituali, come visitare il tempio o lavarsi in un bagno pubblico.
Proprio come tanti monaci, cristiani o buddisti, Hirayama è un uomo che vive in solitudine ma che non è solo, che sa mettersi in rapporto, che ha a cuore chi o cosa incontra. Wenders dice che può esserci una solitudine disperata ma anche una appagata, come quella di Hirayama. Che agli occhi degli altri è un uomo invisibile. Nessuno si accorge di lui nelle toilette. Ma lui, invece, vede tutto e vede tutti.
E poi è un uomo che sa sorprendersi. La sorpresa insomma non deriva dal fare tante cose sempre diverse, ma dallo sguardo che si ha sulla realtà. E lo sguardo di Hirayama è un po’ lo sguardo di un bambino. Che viene compreso solo da chi è bambino, infatti: la nipotina che trova rifugio da lui, il bambinetto che si è perso nella toilette.
Attenzione però: Hirayama non è un santo. Per esempio, non intende andare a trovare il padre anziano. Ha un passato imbarazzante che vuol cancellare. Ma proprio questo impasto ce lo rende più umano, meno astratto. Hirayama si porta dentro un’evidente malinconia che non è però mai disperazione. La sua ascesi è anche un percorso di pentimento, in quel viaggio che è la vita. E Perfect Days è davvero, letteralmente un film sul viaggio (che poi è sin dagli anni ’70 il tema prediletto da Wenders, regista di tanti indimenticabili film on the road). È un film che dice che la vita è un viaggio. Fosse anche quello da compiere ogni giorno, dalla propria casupola ai gabinetti di Tokyo, ascoltando Lou Reed e Nina Simone su una piccola auto.
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