"'Condannato senza prove': le ultime parole di Vanacore, portiere di Via Poma. Si tolse la vita dopo anni di ingiuste accuse per l'omicidio Cesaroni
Pietro Vanacore chi è? Nel posto sbagliato al momento sbagliato…
“Non potevo più sopportare questo peso, mi hanno condannato senza prove, rubandomi la vita”: queste sono state le ultime parole laceranti ritrovate accanto al corpo di Pietro Vanacore, il portiere dell’edificio di via Poma che, il 9 marzo 2010, scelse il mare di Torre Ovo come ultimo silenzioso testimone del suo dolore.
Un finale drammatico per un uomo che, vent’anni prima, si era ritrovato catapultato in uno dei casi più oscuri della cronaca nera italiana: il brutale omicidio di Simonetta Cesaroni, la giovane segretaria massacrata da 29 coltellate in quell’ufficio che lui, Pietrino, conosceva come le sue tasche. La sua colpa? Essere stato nel posto sbagliato al momento sbagliato e, soprattutto, aver avuto la sfortuna di essere un capro espiatorio perfetto per un sistema giudiziario affamato di verità facili.
Quella di Pietro Vanacore è la storia di un’ingiustizia che sa di déjà-vu: l’Italia dimostra ancora una volta la sua pericolosa tendenza a cercare colpevoli prima che prove. Arrestato dopo soli tre giorni dal brutale assassinio, nonostante non ci fosse traccia di moventi e di prove concrete a suo carico, Vanacore trascorse ben 26 giorni in carcere prima di essere rilasciato.
Ma ormai il danno era fatto, la tragedia si era consumata: quel “sospettato numero uno”, quell’etichetta ingiuriosa, era ormai già stata appiccicata ferocemente alla sua reputazione, come un timbro indelebile che lo avrebbe perseguitato per lunghi e dolorosi anni, fino a quel biglietto straziante in cui parlava di “20 anni di sofferenza”. E mentre la Cassazione, nel ’95, lo proscioglieva definitivamente con un laconico “il fatto non sussiste”, nessuno si preoccupò di restituirgli ciò che realmente contava: la dignità.
Pietro Vanacore e via Poma: quando la giustizia diventa una condanna a vita
Emerge un dettaglio inquietante nel caso di Pietro Vanacore: quel suicidio avvenuto pochi giorni prima della sua testimonianza al processo contro Raniero Busco, l’ex fidanzato di Simonetta finalmente accusato dopo 17 anni di indagini farraginose. Una coincidenza? O forse l’ultimo, disperato gesto di un uomo che non voleva rivivere l’incubo di essere sacrificato alla gogna pubblica per l’ennesima volta?
La moglie Giuseppa, quella stessa notte del 1990 costretta ad aprire la porta dell’ufficio dove si trovava il cadavere di Simonetta, raccontò di un marito cambiato per sempre: “Non dormiva più, controllava ogni rumore, aveva paura persino della sua ombra”.
Ma il dramma di Pietro Vanacore porta alla luce una verità più scomoda e desolante: in Italia, essere assolti non significa essere innocenti. Il sistema sa essere spietato con chiunque venga marchiato a vita dal sospetto. Quel palazzo di via Poma, con il suo carretto verniciato di marrone scambiato per sangue, le piante del portiere diventate prove inconsistenti, è il simbolo di un Paese che preferisce i capri espiatori alle verità scomode.
Oggi, mentre il delitto di via Poma rimane ufficialmente un caso irrisolto, con un assassino di cui sconosciamo nome e volto, la morte di Vanacore dovrebbe generare un esame di coscienza collettivo: quanti altri innocenti devono morire prima di comprendere appieno che il sospetto non è una condanna? La sua agendina scomparsa, le telefonate anonime mai verificate, i vestiti di Simonetta mai ritrovati, tutto questo urla ancora giustizia. Ma Pietro Vanacore, ormai, non può più sentirlo.