Pino Astuto, rinchiuso 32 anni in manicomio senza diagnosi: la sua storia sarà raccontata a Che ci faccio qui, stasera su Rai 3
La storia di Pino Astuto arriva oggi in prima serata su Rai 3 nel programma Che ci faccio qui di Domenico Iannacone che ha scelto di raccontare l’inferno silenzioso di un uomo rinchiuso per trentadue anni in manicomio senza che nessuno si chiedesse mai perché: Pino, originario di Girifalco in Calabria, fu internato per la prima volta nel 1972, quando aveva appena nove anni, perché aveva rubato un pezzo di pane – lo fece per fame, per paura della madre, per disperazione – ma quell’episodio, invece di chiudersi con un rimprovero o un intervento sociale, si trasformò in una condanna a vita.
Il suo ingresso nell’ex manicomio San Giovanni si basò su una generica “carenza affettiva”, senza alcuna diagnosi clinica formale, senza alcuna valutazione neuropsichiatrica approfondita, e soprattutto, senza alcun progetto educativo o terapeutico e così, trascorse infanzia e giovinezza tra adulti affetti da patologie psichiatriche gravi, venne legato al letto, picchiato, isolato, mentre cercava invano di fuggire da un mondo che non riusciva a capire, ma che lo aveva già condannato.
Nemmeno la legge Basaglia – che nel 1978 chiuse ufficialmente i manicomi – cambiò il suo destino, poiché Pino Astuto venne trasferito in una struttura psichiatrica residenziale dove rimase fino al 1999, senza mai ricevere una diagnosi definitiva né una reale alternativa alla segregazione e quando fu dimesso, si ritrovò da solo, senza riferimenti, senza tutele e senza un passato riconosciuto; solo nel 2012, grazie all’avvocata Serenella Galeno, cominciò una lunga battaglia legale contro l’ASP di Catanzaro, culminata dieci anni dopo con un parziale risarcimento di 50.000 euro, stabilito dal tribunale come compensazione per la perdita di chance educativa durante l’infanzia, ma nulla gli fu riconosciuto per gli anni da adulto trascorsi in una detenzione illegittima.
Pino Astuto e il suo fragile riscatto dopo trent’anni di silenzio
Oggi Pino Astuto (intervistato nel 2019 da Le Iene) vive ancora a Girifalco, in una casa semplice con la moglie Angela, circondato da oggetti costruiti con le sue mani, mobili nati da materiali di scarto che lui stesso raccoglie e reinventa, quasi a voler riscattare ciò che la società ha buttato via; la sua quotidianità è segnata da piccole passioni, come collezionare penne – simbolo di quella scuola mai frequentata, di parole mai scritte e pensieri mai espressi – e da una solitudine che si porta inevitabilmente dentro.
La pensione minima che riceve non basta a garantirgli un futuro sereno, e ogni volta che cerca lavoro si scontra con la diffidenza degli altri, che sembrano vedere in lui ancora il “matto del paese”, come se quel passato violento e ingiusto fosse una colpa da scontare per sempre, ma Pino non si arrende, cerca un senso in tutto quello che ha vissuto e si aggrappa a ogni piccolo segno di riconoscimento pubblico come a un risarcimento simbolico.
La storia di Pino Astuto raccontata a Che ci faccio qui rappresenta una richiesta di giustizia che non riguarda solo lui, ma un intero sistema che ha trasformato l’assistenza in segregazione; non parla volentieri del dolore, ma chi lo conosce racconta che, nei suoi silenzi, c’è la memoria di chi ha visto l’umanità ridotta a procedura, la dignità spenta in nome della burocrazia e il suo volto diventa così quello di una denuncia collettiva, e il racconto che lo accompagna deve conservato come una lezione morale su cosa accade quando lo Stato dimentica di proteggere, e invece condanna.
