Ieri si sono svolti i funerali di Pippo Baudo. Il ricordo di Alberto Contri che ebbe modo di conoscerlo personalmente
Ho conosciuto Pippo Baudo alla fine degli anni 70 durante una Festa dell’Amicizia che si teneva sull’aia di una grande cascina in Brianza. Allora suonavo per diletto la chitarra nella Swinghera, un gruppo specializzato nel jazz anni 30-40, e gli organizzatori avevano ingaggiato noi per proporre agli ospiti qualcosa di diverso.
A metà pomeriggio vedemmo arrivare Pippo Baudo la cui presenza galvanizzò il pubblico della festa. Come tutti sanno era un grande intrattenitore e condiva le sue battute con musiche divertenti. Finimmo immancabilmente con una corale Donna Rosa cantata da tutti i presenti.
Restammo insieme a cena, e così ebbi l’occasione di conoscere una persona estremamente colta, appassionato lettore di libri, e anche innamorato della Sicilia e della cultura contadina (aveva convinto gli agricoltori confinanti con il suo podere a riunirsi in cooperativa). Per non parlare della sua approfondita conoscenza della musica di ogni genere.
Scoprii che partecipava alle Feste dell’Amicizia gratuitamente in quanto era un democristiano davvero convinto, anche di offrire il suo talento per raccogliere consensi intorno agli ideali della Democrazia Cristiana.
In questi giorni viene spesso mandato in onda uno spezzone in cui si vedono insieme quattro “bravi presentatori”: Mike Bongiorno, Corrado, Enzo Tortora e lui. Tutti accomunati da garbo, educazione, professionalità, educazione.
Pochi sanno che presentare come si deve, leggendo il gobbo, facendo attenzione a cosa succede in studio, seguire le indicazioni della regia, tenere conto dei tempi, fronteggiare gli imprevisti e poi apparire una persona normale e divertente non è affatto semplice. In questo, tutti e quattro erano maestri. Ma Pippo aveva una marcia in più, grazie alla sua notevole cultura letteraria, teatrale e musicale: era un vero e proprio talent scout.
Non si contano i cantanti e gli artisti da lui scoperti e lanciati (inutile nominarli, si rischia di dimenticarne qualcuno). Personaggi che poi sono state le colonne della tv, e ancora di quella di oggi.
E poi era pure un maestro della conduzione dal vivo, compito ancora più complesso e pieno di trappole. In cui Baudo non è mai caduto.
Molto si è discusso dell’accusa lanciatagli dal presidente Manca di fare una tv nazional popolare, ma in senso inverso di quello gramsciano: secondo Manca invece di portare l’alto al basso, portava il basso in alto.
In realtà Baudo aderiva al compito che gli era stato affidato: con Guglielmi e Curzi la Rete Tre era diventata l’isola della sinistra, la Rete Due quella che sperimentava con Arbore e Minoli, la Rete Uno quella doveva rassicurare e divertire le famiglie. E Baudo questo fece al meglio delle sue capacità.
Fedele all’eredità della tv di Bernabei ha sempre cercato di mantenerne il più possibile l’impronta anche grazie ai migliori registi di allora, che però pian piano sono scomparsi.
Aveva fatto suo il pensiero di Antonello Falqui, che parlando di Studio Uno aveva detto: “Allora, per fare un’ora di programma, si facevano venti giorni di prove. Oggi per andare in onda il sabato si comincia il giovedì. La rovina della tv è il cotto e mangiato”.
Cosa che non avveniva con Baudo, che curava ogni dettaglio e ogni aspetto del programma a lui affidato. Può essere che molti dirigenti lo abbiano poi considerato superato per questo, perché pretendeva troppe prove. E il suo continuamente pensare al lavoro gli è pure costato il rapporto con la Ricciarelli: “Ci vedevamo a cena dopo 15 giorni e lui si metteva a guardare la tv”.
Ogni tanto ci incontravamo casualmente, e ovviamente si parlava di tv. Quando seppe che nel ’68 avevo suonato il contrabbasso con Louis Armstrong e la Bovisa New Orleans Jazz Band nel programma Quelli della domenica, volle che partecipassi con quella band a Novecento commentando per l’occasione lo storico filmato.
L’ultima volta che lo incontrai fu quando andai a trovarlo a casa sua, in via della Croce, per raccontargli del progetto di Lino Patruno sugli emigrati italiani che avevano fatto nascere il jazz a New Orleans (il primo disco di jazz fu infatti inciso nel 1917 da Nick La Rocca, che era figlio di un trombettista che aveva suonato nella banda del generale Lamarmora).
L’idea gli piacque moltissimo, anche perché dava l’opportunità di vantare un curioso primato musicale dell’Italia che ben pochi conoscono. Ci lasciammo con la promessa che avrebbe provato a parlarne in Rai.
Qualche tempo dopo mi chiamò, molto abbattuto, dicendomi: “Niente da fare, non ho trovato nessuno in grado di capire la bellezza di questa idea, oltretutto realizzabile a basso costo con molto materiale di repertorio delle Teche e la band di Patruno dal vivo. Non c’è più la Rai di una volta”.
È vero, i tempi cambiano. Ma un programma del genere meriterebbe davvero una collocazione nel servizio pubblico, come lui convintamente riteneva doveroso.
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