È facile – e forse anche corretto, per certi versi – censurare un europarlamentare italiano della Lega che calpesta platealmente il testo di un intervento di un Commissario francese dell’Ue. Non è difficile neppure stracciarsi le vesti di fronte a un altro europarlamentare leghista italiano che nega il voto decisivo al tecnocrate italiano Enria candidato al passaggio dall’Eba al Ssm nel sistema di supervisione bancaria dell’Europa (ma chi l’ha candidato? E chi ha deciso di promuovere dalla sede Ue a quella Eurozona il tecnocrate che nel fatale 2011 ha condotto il primo di una lunga serie di stress test punitivi proprio per le banche italiane?).
I censori – soprattutto se appartengono alle fila del legittimismo costituzionale in lotta con i presunti eversori populisti – dovrebbero sempre rammentare che i due “impresentabili” eurodeputati italiani sono stati democraticamente eletti. Il Commissario francese o l’alto funzionario italiano, sono stati invece designati da compromesso a cascata fra Capi di Stato e di Governo sulla base di un Trattato europeo che originariamente non prevedeva alcun passaggio di legittimazione democratica presso il parlamento di Strasburgo. Un Trattato, quello di Maastricht, che continua a prevedere una legittimazione soltanto parziale della Commissione di Bruxelles: e che infatti era stato messo in cantiere di ristrutturazione.
Il Consiglio dei capi di Stato e di Governo è da sempre il piedistallo della “governance” europea. Che ne facessero parte sei leader o 28 è l’organo della sovranità ultima dell’Europa, delle mediazioni vere, trasversali ai confini nazionali e alle famiglie politiche. È’ qui che il generale De Gaulle fece ostruzione contro l’ingresso della Gran Bretagna; oppure che Mitterrand e Kohl trovarono l’accordo sulla riunificazione tedesca in cambio del marco fuso nell’euro (e qui si decise anche che l’Italia avrebbe fatto parte fin dall’inizio dell’eurozona). Il Consiglio ha oggi ben due leader formali: il presidente di turno (nel secondo semestre 2018 è il premier austriaco Kurz) e il presidente permanente del Consiglio europeo, attualmente l’ex premier polacco Tusk. Il leader sostanziale resta il cancelliere tedesco Merkel, con il presidente francese Macron in posizione di quasi-parità.
All’estremo opposto, l’europarlamento è tuttora il fulcro istituzionale a tendere di una Ue che non ha mai perso di vista il traguardo dell’Unione politica dopo quella doganale del 1957, quella dei mercati nel 1992, quella monetaria nel 1999, quella bancaria del 2012, oltre al cantiere dell’unione fiscale. A Strasburgo si decide ancora poco, ma il suo profilo politico-istituzionale sta salendo a dismisura in vista del voto del maggio 2019: pochi giorni fa l’Ungheria di Victor Orban è stata messa formalmente sotto accusa per presunta violazione dello stato di diritto. Il presidente del Parlamento europeo in scadenza è l’italiano Tajani.
Kurz e Tusk, ma anche Tajani: dove sono mentre la contrapposizione fra il Governo di Roma e la Commissione di Bruxelles sulla manovra di bilancio italiana è in pericolosa “escalation”? Coloro che – anzitutto in Italia – invocano una “mediazione” (premendo di fatto su palazzo Chigi perché ritiri il budget 2019 di fronte al diktat di Bruxelles) sembrano dimenticare che una mediazione richiede tavoli opportuni e figure adatte: sempre ammesso che il Governo italiano debba davvero “mediare” con la Commissione guidata da Juncker o con il Commissario Moscovici.
Il Premier italiano Conte non è un pari grado di Juncker (o del vice Dombrovskis) esattamente come il ministro dell’Economia Tria non lo è di Moscovici. Conte partecipa al Consiglio europeo, Tria all’Ecofin e all’Eurogruppo (il tavolo dei ministri finanziari dei Paesi dell’Eurozona). È qui che l’Italia – com’è già avvenuto nel giugno scorso sul dossier migranti – pone e vota le questioni sul tavolo al pari degli altri Paesi membri. Ed è qui che i 27 si alzano dal tavolo – spesso dopo notti insonni – con o senza accordi: ma in un contesto di confronto politico, completamente diverso dalle “procedure d’infrazione o di sanzione” decise a livello di Commissione. Un livello inferiore, esecutivo: certamente rilevante, ma pur sempre “dato” dalla dimensione politico-istituzionale e comunque ricompreso nelle dinamiche politiche ultime dell’Unione.
Appare quindi in malafede – intellettuale politica – chi pretende che l’Italia si affanni a trovare un accordo con Juncker e Moscovici, che debba “rifare il compito a casa in tre settimane”, come preteso dalla carta bollata spedita da Bruxelles. E ciò anche al netto dei gravi deficit di legittimazione politico-personale dei commissari uscenti.
“L’accordo” fra l’Europa e la Grecia, nel 2015, fu trovato in una stanza in cui erano presenti tre leader: il cancelliere tedesco Merkel, il premier greco Tsipras e il presidente francese Hollande (in funzione di testimone dopo aver svolto azione di mediazione dietro le quinte dopo il clamoroso referendum lampo ad Atene). Juncker non c’era, non era necessario né utile che ci fosse. Non c’era neppure Tusk, né il Presidente lussemburghese di turno alla Ue, né il Presidente del Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz. Non servivano quando la “mediazione” sul salvataggio della Grecia si stava svolgendo direttamente, al massimo livello sostanziale della governance politica Ue.
Se tuttavia la governance sostanziale dell’Europa è malfunzionante o addirittura fuori uso – sia la Merkel, sia il presidente francese Macron sono in gravi difficoltà politiche al vertice dei rispettivi governi nazionali – non è un buon motivo per azzerare l’architettura formale di governo Ue: dove – è utile ripeterlo – la Commissione Ue non è interlocutore diretto di un Governo nazionale, al netto dell’evidente obsolescenza delle regole di Maastricht (a proposito: se sono “fuori parametro” il deficit e il debito 2019 dell’Italia con il 30% di disoccupazione dopo sette anni di austerity subita, lo è anche l’avanzo commerciale in eccesso della Germania in piena occupazione dopo sette anni di austerity imposta).
Se la mediazione sul bilancio italiano non parte è principalmente perché nessuno di coloro che dovrebbero mediare in Europa può o vuole entrare in azione. E non sembra superfluo mettere a fuoco un altro profilo a forte rischio di equivoco politico e mediatico. Lo spread italiano non ha reagito negativamente né alla presentazione della manovra, né al declassamento da parte di Moody’s (che sui mercati era virtualmente scontato e incorporato nello differenziale a quota 300). Ha sempre reagito negativamente ai botta e risposta fra Roma e Bruxelles.
Da un lato, quindi, i mercati giudicano indubbiamente peggiorata la rischiosità del debito italiano con il Governo giallo-verde e una manovra imperniata su reddito di cittadinanza e la sua guardia abbassata sulle pensioni. Fin qui la responsabilità è dei co-premier Di Maio e Salvini verso il Paese: se vogliono abbassare lo spread e rimetterlo in sicurezza prospettica non possono non pensare a rimodulazioni della manovra, prevedibilmente attraverso una mediazioni interne alla maggioranza.
Ciò che sta invece alzando lo spread italiano verso 400 è il rischio che l’Europa si sfasci sul muro contro muro fra palazzo Chigi e Bruxelles. E questo non è responsabilità dell’Italia e alla fine neppure degli “esecutori” della Commissione. Sono altri che non hanno la volontà o l’autorevolezza politica per mediare con Roma, in chiave di “tanto peggio per l’Europa”. Berlino e Parigi – sette anni dopo il 2011 – non possono pensare che basti Juncker a imporre all’Italia diktat unilaterali. E soprattutto la Merkel si assume un grosso rischio nel far apparire un abbaiatore al guinzaglio il Premier austriaco: che invece dovrebbe essere istituzionalmente il presidente “terzo” dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione.