Dopo la forte astensione alle regionali Carlo Cottarelli, candidato premier per un giorno nel 2018, punta il dito sulla crisi di senso civico degli italiani
Carlo Cottarelli ha voluto affrontare ieri sul Corriere della Sera l’emergenza astensionismo. L’intento è parso tanto più meritorio in quanto Cottarelli non ha temuto di intervenire in un dibattito in cui non appare del tutto immune dal rischio di finire sul banco degli imputati.
L’economista di lungo e prestigioso corso al Fondo monetario internazionale è stato infatti protagonista di un passaggio recente della storia politica italiana in cui era già possibile cogliere segnali di crisi evidente della gestione istituzionale della democrazia elettorale nel Paese. E fors’anche alcune cause di un astensionismo apparentemente inarrestabile, che Cottarelli addebita oggi come “sintomo” a un crisi di “senso civico” a suo avviso dilagante fra gli italiani.
Era la primavera 2018 e due mesi prima si erano tenute le elezioni politiche, alla scadenza regolare di una legislatura caratterizzata da tre governi a guida Pd. Enrico Letta aveva inizialmente pilotato un esecutivo di decantazione del voto 2013, a sua volta caratterizzato dall’inattesa “non vittoria” del Pd, dopo il controverso governo di Mario Monti (entrato a Palazzo Chigi come senatore a vita tecno-istituzionale e uscitone leader politico centrista, peraltro anomalo, improvvisato e infine perdente).
Era stata poi la volta di Matteo Renzi, un mai-parlamentare catapultato alla premiership dal presidente Giorgio Napolitano sulla prolungata linea rossa di un semipresidenzialismo ibrido, costituzionalmente discutibile.
Dopo un passaggio di consegne fra Napolitano e Sergio Mattarella al Quirinale – all’interno del Pd ma anche del “patto del Nazareno”, con il prestito alla maggioranza di senatori di Forza Italia capitanati da Denis Verdini – Renzi andò a schiantarsi su un referendum istituzionale fortemente voluto dal Pd suo, di Napolitano e Mattarella.
L’ipotesi di elezioni anticipate non venne tuttavia mai evocata. La legislatura fu quindi conclusa da un governo di puro galleggiamento – di presidio del potere dem – affidato a Paolo Gentiloni.
Dal voto del marzo 2018 il Pd uscì dimezzato rispetto alle europee 2014 e in netto regresso rispetto a cinque anni prima. Davanti a un’affermazione storica di M5s – e a un grande balzo della Lega nel centrodestra – quasi tre mesi trascorsero in consultazioni e trattative apparentemente confuse e sterili, connotate in realtà dalla forte resistenza dem (imperniata nel Quirinale) e di un vasto establishment politico-finanziario alla formazione di una maggioranza M5s-Lega, giudicata “antagonista” e “populista”, quindi “non democratica”.
Il governo gialloverde, tuttavia, alla fine riuscì a vedere la luce: ma non senza il prezzo – preteso anzitutto dal Quirinale – che né Luigi Di Maio (candidato premier e forte di un successo elettorale che nessun candidato Pd ha mai avuto) né Matteo Salvini potessero entrare nella stanza dei bottoni di Palazzo Chigi.
Diventò premier Giuseppe Conte: un giurista “di area pentastellata” (in seguito si professò però cattodem), perfetto sconosciuto in ogni ambito, mai eletto neppure in un consiglio di quartiere. Non diventò invece ministro dell’Economia – come i due partner di maggioranza avrebbero desiderato – Paolo Savona, economista di grande cursus istituzionale.

Sul suo nome calò la scure “semipresidenzialista” di Mattarella, dietro cui non era difficile scorgere il veto di Mario Draghi, allora ancora al vertice della Bce (e futuro “premier del Presidente” Mattarella). Nel concitato finale del maggio di sette anni fa, non mancò comunque un siparietto gustoso, interpretato in elegante souplesse proprio da Cottarelli.
Fu lui a essere convocato al Quirinale per un incarico a formare un governo tecnico: un passo che l’economista per primo sapeva essere solo virtuale (è invece meno sicuro che lo pensassero Mattarella e Draghi, ancora spalleggiati da “Europa e mercati”, gli stessi dello strappo 2011).
Cottarelli ne approfittò per regalare agli annali della Repubblica una foto a suo modo memorabile. Si presentò al portone del Quirinale a piedi, da solo, una mano su un trolley. L’immagine senza volto e senza tempo del senior officer Fmi appena atterrato in un paese del Terzo o Quarto Mondo, pronto a fermarsi al massimo una notte (ma non di più e solo se nel raggio del palazzo presidenziale c’è un Hilton accettabile).
La sua valigetta è immancabilmente piena di slides, per comunicare (senza diritto di replica) al governo di turno quanto il Fondo aveva deciso di prestare e soprattutto a quali condizioni (nel trentennio della globalizzazione liberista i diktat riguardavano liberalizzazioni, privatizzazioni, grandi investimenti infrastrutturali, partnership internazionali preferenziali e “meccanismi” di stabilità).
Cottarelli non divenne premier e neppure ministro. L’esecutivo gialloverde non durò però più di un anno, sebbene la Lega avesse stravinto il voto europeo (ma forse il problema fu questo).
Già in agosto un ribaltone sovrainteso dal Quirinale riportò al governo il Pd sconfitto un anno prima a fianco di di M5s, dimezzato in Italia dall’euro-voto. Non mancò però a “Giuseppi” Conte un singolare endorsement da parte di Donald Trump 1. Il Conte 2 nacque in ogni caso con il tifo scatenato di Romano Prodi per un “governo Ursula”, dal nome della nuova presidente tedesca della Commissione Ue (oggi l’ex premier ulivista ha cambiato radicalmente idea).
E se l’astensionismo degli italiani fosse figlio di stanchezza e rifiuto di come l’Italia è stata governata nel Ventennio – tuttora in corso – dominato dal Quirinale dem, pur non essendo mai stato il Pd un partito di effettiva maggioranza elettorale nel Paese?
Se il “senso civico” in crisi non fosse quello degli elettori ma degli eletti (anzi: spesso di governanti non eletti)? Se la disaffezione della politica fosse il sintomo del dilagare antidemocratico dell’antipolitica? Ma non quella di cui sono stati puntualmente accusati M5s, Lega oppure Fratelli d’Italia, non a caso schiaccianti vincitori dell’ultimo voto democratico. Piuttosto l’antipolitica del Pd, arroccato abusivamente al potere per due legislature.
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