REFERENDUM LEGA/ Giorgis (Pd): ecco perché la Consulta lo boccerà

- int. Andrea Giorgis

Depositato il quesito anti-proporzionale, su cui restano dubbi di incostituzionalità. Ma tocca al Parlamento fare la riforma delle regole del gioco. Senza calcoli

governo dl capienze L'aula del Senato (LaPresse)

La Lega ha depositato in Corte di Cassazione il testo del quesito referendario per abolire la quota proporzionale prevista nel Rosatellum. L’obiettivo del “Popolarellum” – come lo ha definito Roberto Calderoli perché “a decidere con il referendum sarà il popolo” – è quello di introdurre un sistema anglosassone, un maggioritario puro che garantisca a chi prende un voto in più di poter governare. La mossa della Lega riapre così la partita della legge elettorale, il cui fischio d’inizio era stato deciso dal Pd, all’inizio della nuova esperienza di governo giallo-rosso, dopo l’ultimatum del M5s sul taglio dei parlamentari. Come andrà a finire? Quale sarà la risposta del governo? Si andrà verso una soluzione maggioritaria o il fronte proporzionalista è ancora forte? Lo abbiamo chiesto ad Andrea Giorgis, sottosegretario alla Giustizia, responsabile Pd per le riforme costituzionali e professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Torino.

La Lega ha depositato in Cassazione il quesito referendario anti-proporzionale. Vi sentite scavalcati da questa mossa?

Bisogna vedere quale sarà il giudizio prima dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione e poi il giudizio della Corte costituzionale sull’ammissibilità.

Lei cosa prevede?

Qualche dubbio sull’ammissibilità lo nutro, perché non sembra – almeno a una prima lettura – un quesito auto-applicativo.

Che significa?

La Corte costituzionale, fin dal 1991, ha sempre preteso per ammettere i referendum in materia elettorale che dall’esito eventualmente positivo della consultazione risultasse una disciplina immediatamente applicabile.

E nel caso del “Popolarellum”?

C’è qualche dubbio sul fatto che, se il quesito venisse accolto dagli elettori, non ci sarebbe la possibilità di definire subito una normativa che comprenda anche la definizione dei collegi uninominali.

Perché?

Perché il quesito abroga la parte proporzionale del Rosatellum, che ha per cinque ottavi un sistema proporzionale a liste bloccate e per tre ottavi un sistema a collegi uninominali. Eliminando la parte proporzionale, rimangono in piedi i collegi uninominali, ma il loro numero è inferiore al numero di deputati e senatori che bisogna eleggere.

Quindi?

Occorrerà una legge che definisca i collegi elettorali che rendono possibile l’elezione di tutti i deputati e di tutti i senatori con il sistema del collegio uninominale. La Corte potrebbe allora porsi la domanda: e se il legislatore non provvede subito a disegnare i collegi e la legislatura giunge al termine?

Cosa potrebbe capitare?

Capita che il nostro sistema istituzionale democratico si blocca. Ed è esattamente ciò che la Corte ha sempre detto non essere ammissibile. Ecco perché dal quesito referendario deve risultare una disciplina elettorale immediatamente applicabile. E in questo referendum c’è più di un dubbio: non si saprebbe quanto sono ampi e definiti i collegi circoscrizionali, dunque la legge non sarebbe applicabile.

Ma il taglio dei parlamentari, fortemente voluto dal M5s, impone per forza una revisione della legge elettorale? E se dovesse essere definitivamente approvato il 7 ottobre, non verrebbe incontro a questa necessità, abbassando il numero di deputati e senatori?

Se si dovesse procedere, come ormai pare, all’approvazione della riduzione dei parlamentari, credo che sia abbastanza necessaria una nuova legge elettorale, soprattutto per quanto riguarda il Senato.

Per quale motivo?

I senatori – 200 – che rimarrebbero da eleggere, con il Rosatellum sarebbero eletti in modo tale da sostanzialmente escludere le forze minori. Il sistema elettorale è disegnato con collegi definiti in modo tale che alla fine ci sarebbe un effetto disproporzionale molto rilevante, con una soglia implicita molto alta, intorno al 10% come si è detto durante il dibattito parlamentare, quindi sarebbe un Senato che potrebbe essere carente dal punto di vista della rappresentatività. E se in alcune regioni, specie le più piccole, diventa pressoché impossibile eleggere rappresentanti per alcune forze politiche, questo renderebbe necessario di riconsiderare il sistema elettorale.

Alla nascita del Conte-2 sembrava che taglio dei parlamentari e riforma elettorale dovessero procedere più o meno in sequenza. Poi da più parti si è osservato che, se si tocca la legge elettorale, si deve andare subito dopo al voto. E’ per questo motivo che sulla legge elettorale si prenderà un po’ più di tempo?

Non credo che sia per questo, anche perché non c’è alcun automatismo tra approvazione della legge elettorale e conclusione della legislatura. Anzi, a rigore bisognerebbe evitare di approvare le leggi elettorali a ridosso della scadenza della legislatura, perché una legge elettorale è una legge decisiva per la democrazia e sarebbe bene approvarla in maniera condivisa e in maniera tale da dare a tutte le forze politiche la possibilità di attrezzarsi per la sua applicazione. Non considero scontata che l’approvazione della legge elettorale determini la fine della legislatura. Del resto, la fisiologia dovrebbe essere quella di avere poche modifiche alle leggi elettorali.

In 26 anni per ben 6 volte si è messo mano alla legge elettorale…

Prima o poi dovremo trovare una legge elettorale che duri nel tempo e che non viene cambiata a ogni tornata. In un ordinamento democratico ben funzionante le leggi elettorali si cambiano molto raramente. Il prender tempo sulla legge elettorale non può essere un mezzo per far durare una legislatura, perché se così fosse bisognerebbe aspettare anche ad approvare la riforma del taglio dei parlamentari. Credo che il nostro Paese abbia bisogno di un governo in grado di far ripartire l’economia, l’occupazione, gli investimenti e di ridurre le disuguaglianze.

Sull’ipotesi di riforma della legge elettorale il Pd sembra diviso tra chi vorrebbe un sistema maggioritario e chi un proporzionale. In che direzione si andrà?

Ci sono ovviamente valutazioni diverse, però nel Pd c’è una comune preoccupazione: da un lato, il Pd vuole assicurare a Camera e Senato un adeguato grado di rappresentatività. Noi siamo convinti che bisogna riavvicinare il più possibile le istituzioni ai cittadini e quindi garantire che ci sia una rappresentatività tale da far sentire in Parlamento tutto il pluralismo sociale e culturale.

E dall’altro lato?

Bisogna introdurre dei meccanismi elettorali che evitino la frammentazione e incentivino la formazione dei governi.

Quale sistema elettorale è più compatibile con queste esigenze?

Lo è tanto un sistema più proporzionale a soglie di sbarramento, quanto un sistema a collegi uninominali con scorporo alla tedesca. Sono entrambi modelli che possono condurre allo stesso equilibrio: tenere insieme rappresentatività, di cui non si può fare a meno, con stabilità, governabilità, disincentivando la frammentazione e premiando quelle forze politiche che costruiscono alleanze stabili.

Perché non adottare i sistemi di voto regionali, che garantiscono chiarezza sui vincitori e stabilità di governo?

E’ impossibile, perché a livello regionale c’è l’elezione diretta del presidente della Regione. Il paragone con Regioni e Comuni è fuorviante, perché a livello regionale e comunale non abbiamo una forma di governo parlamentare, bensì di tipo più presidenziale.

Ma è giusto che ogni governo si disegni la legge elettorale per favorirne il successo o per sfavorire un leader, un partito o una coalizione avversari?

Questa considerazione è smentita dai fatti, perché le ultime leggi elettorali sono state fatte da chi poi ha perso le elezioni. Le previsioni sulle leggi elettorali, dalla legge Calderoli in poi, si sono dimostrate abbastanza fallaci. Il mio auspicio è che si creino le condizioni per un confronto parlamentare così maturo e serio da ragionare sulla legge elettorale più coerente con le esigenze del nostro Paese, non a vantaggio dell’uno o dell’altro. La legge elettorale fissa le regole del gioco, bisogna che sia costruita perché il gioco si dispieghi bene, non perché vinca l’uno o l’altro. Vorrei una democrazia matura dell’alternanza, nella quale – lo ripeto – è possibile rappresentare il pluralismo ed evitare che i cittadini non possano scegliere tra alternative diverse.

Un auspicio, appunto, visto che in Italia le leggi elettorali, anziché essere affidate al Parlamento, vengono decise dai governi, dai giudici o come con questo referendum dal popolo.

Appunto, tre istituti non deputati a fare la legge elettorale, perché anche il referendum, con tutti i suoi pregi, è un sistema decisionale a somma zero, non c’è la mediazione: o sì o no. Invece la legge elettorale deve essere il risultato di un incontro, di una mediazione, di una sintesi. E lo strumento normale è il dibattito parlamentare.

Quanto mai difficile, come dimostra la storia recente…

Forse bisognerebbe guardare un po’ meno ai sondaggi, vedere un po’ meno le convenienze e ragionare in termini di interesse generale. Sarebbe desiderabile che ci fosse un po’ più di quel che viene definito in modo aulico il “velo di ignoranza”.

Vale a dire?

Nessuno sa quale forza avrà domani, e allora costruisce un sistema senza calcoli. E’ la condizione che ha reso possibile l’approvazione della Costituzione nel 1948: non si sapeva a chi convenisse e quindi si è ragionato tutti assieme. Anche perché oggi è molto difficile prevedere l’orientamento dell’elettorato a seconda dei sistemi elettorali: si possono sì avanzare delle ipotesi, ma tutte aleatorie.

Un’ultima domanda. Enrico Letta propone di allargare il diritto di voto ai 16enni, idea su cui si è registrato subito un asse Pd-M5s. Lei che ne pensa? E’ una mossa per contrastare il calo di consensi registrati dal centrosinistra, pescando nel bacino ancora incontaminato della montante ondata ambientalista?

Io penso che sarebbe già un buon passo in avanti se approvassimo la riforma, ora al Senato, che abbassa l’età dell’elettorato attivo e passivo a 18 anni anche per il Senato. E poi sarebbe decisivo trovare parole e gesti per far sì che le persone, indipendentemente dall’età, avvertano come un dovere civico la partecipazione alla vita politica. La nostra democrazia è debole perché coloro che vi prendono parte attivamente sono troppo pochi. Il tema della partecipazione è molto serio e temo che non lo si possa risolvere solo abbassando l’età.

(Marco Biscella)





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