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Home » Sanità, salute e benessere » REPARTO COVID/ “Il momento più difficile è quando uno viene intubato e dice addio”

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REPARTO COVID/ “Il momento più difficile è quando uno viene intubato e dice addio”

Int. Tommaso Fossali
Pubblicato 29 Novembre 2020 - Aggiornato alle ore 07:16
(LaPresse)

(LaPresse)

La pandemia da Covid costringe il personale sanitario a fare i conti tutti i giorni con la morte

La Lombardia è diventata regione arancione, la buona notizia è questa. Quella brutta è che dopo ogni lockdown si teme che i contagi tornino e che solo le chiusure siano l’unica “medicina” in grado di salvare vite umane. È quello che ci ha detto Tommaso Fossali, medico rianimatore nell’unità Covid dell’Ospedale Sacco di Milano: “Sì, il timore è questo, che una volta tornati a una vita normale si torni alla pandemia. Al di là delle regole ritengo che sia una questione di responsabilità individuale, che ogni persona debba cercare di mettere in atto tutte le misure possibili per evitare che il contagio torni a salire”. Un lavoro, quello del dottor Fossali, che lo porta quotidianamente di fronte alla morte in una misura tale che quando ha deciso di fare questa professione non avrebbe mai immaginato fosse così: “Prima del virus, di persone con insufficienze respiratorie così gravi ne vedevano al massimo una ventina all’anno, adesso sono centinaia in poche settimane. È stata una cosa inimmaginabile e dal punto di vista psicologico è difficile. Il momento peggiore è quando devi dir loro che vanno intubati e messi in anestesia generale, a dormire. Spesso ci salutano dicendoci addio e spesso non si risvegliano più”.


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Qual è la sua occupazione precisa presso l’ospedale Sacco?

Lavoro nell’unità di anestesia e rianimazione, reparto Covid.

La Lombardia è diventata regione arancione, anche da voi al Sacco c’è meno emergenza?

Rispetto all’ultima settima di ottobre e alla prima di novembre, quando c’era stato un boom di ricoveri, adesso la situazione si è stabilizzata, si è raggiunto una sorta di plateau. I malati sono ancora tanti ma tutto sommato abbiamo raggiunto un certo equilibrio. Tutto l’ospedale comunque gira ancora intorno all’emergenza Covid. Nel periodo detto si temeva che la situazione si evolvesse in modo non più gestibile, ma per fortuna adesso non è così.


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Teoricamente ogni lockdown serve a far scendere i contagi. Qual è la vostra impressione come personale sanitario?

Sì, il timore è che se si dovesse lasciare troppa libertà possa esserci una nuova ondata. Al di là delle regole io ritengo che sia una questione di responsabilità individuale, ogni persona deve cercare di mettere in atto tutte le misure possibili per evitare che il contagio torni a salire.

La cura dei malati rispetto alla scorsa primavera come è cambiata? È vero che c’è maggiore capacità medica di assisterli?

Da un punto di vista della terapia intensiva abbiamo aggiustato alcuni approcci, anche se di fatto il vero problema è che manca una terapia specifica. Cerchiamo di mantenere le funzioni vitali in attesa che il paziente guarisca. Alcuni dati su alcuni farmaci ci danno notizie positive, ma di fatto le uniche terapie conosciute sono il cortisone e l’eparina che però non sono quelle specifiche per una cura antivirale.


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Un paziente che viene intubato è del tutto privo di coscienza?

Il paziente viene addormentato, come se fosse in anestesia generale, cosa che dura tutto il tempo dell’intubazione.

È questo il momento più difficile dal punto di vista sanitario e umano?

Dal punto di vista umano il momento più difficile è il momento in cui il paziente poco prima di essere intubato è ancora cosciente e dobbiamo dirgli che verrà intubato. A volte ci chiedono se poi si sveglieranno, qualcuno saluta dicendo addio. È il momento che è più provocatorio dal punto di vista umano. Quando poi vengono intubati rimangono addormentati. Alcuni si risvegliano, altri non si risvegliano più.


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Chi ha scelto la sua professione sa che va incontro a questi momenti. Che risvolti psicologici comporta?

Di sicuro era inaspettato, dal punto di vista sanitario. Di insufficienze respiratorie così gravi ne vedevano al massimo una ventina all’anno, adesso sono centinaia in poche settimane. È stata una cosa inimmaginabile e dal punto di vista psicologico è difficile.

Che cosa aiuta ad affrontare le vostre giornate?

Aiuta lavorare insieme. Con i colleghi e gli infermieri c’è molto affiatamento, si cerca di sostenersi, si cerca di portare conforto e speranza ai malati anche se la speranza è poca.


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È un’esperienza che ha cambiato il vostro modo di stare sul lavoro?

Sicuramente si lavora di più insieme, questo significa che emerge l’umanità di tutti noi, nel bene e nel male. Siamo messi a nudo, però nessuno si tira indietro e si cerca di darsi coraggio a vicenda. Personalmente tutto questo ha voluto dire rendersi conto che la medicina, come era anche prima del virus, e le capacità tecnologiche arrivano fino a una certo punto. In tanti casi ti ritrovi ad essere impotente.

Se lei tornasse indietro a quando ha iniziato questo lavoro sapendo che l’avrebbe aspettata questa situazione, lo rifarebbe?


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Sì, lo rifarei. Ci sono stati momenti difficili in cui ho pensato di cambiare lavoro, però a domanda brutale do una risposta brutale: non cambierei, rifarei tutto.

(Paolo Vites)

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