Oggi è la festa della mamma, ma è sempre più difficile per le donne avere un pieno riconoscimento nel mondo del lavoro e questo incide sulla natalità
Non è più automatico che la festa della mamma sia l’8 maggio: ora viene fatta coincidere con la seconda domenica di maggio, mese dedicato alla Santa Vergine, figura simbolica della maternità cattolica. Ma oggi non c’è molto da festeggiare né da noi in Italia, né in gran parte del resto del mondo a cominciare dalla strage di generazioni intere nel Medio oriente, in Ucraina, in Afghanistan e in zone del Terzo mondo e non solo dove le donne sono sempre più mortificate.
In Italia le donne sono più degli uomini, studiano di più e spesso hanno risultati scolastici migliori dei loro coetanei, tanto da costituire oggi una fetta preponderante del capitale intellettuale del Paese; ma lavorano di meno e, soprattutto, sono meno valorizzate sul posto di lavoro: il loro talento è dunque mortificato, con conseguenze che pesano sul loro vissuto, ma anche sull’intera società, che si trova a dover fare a meno di risorse preziose.
Le donne che vivono in Italia sono quasi 31 milioni e rappresentano il 51,3% della popolazione. Tra queste 4 milioni e 698 mila sono minori (il 15,2% del totale) e 7 milioni e 788 mila sono longeve con più di 65 anni (il 25,1%): queste ultime sono in forte crescita negli ultimi anni.
Uno degli ambiti in cui sono stati fatti passi avanti, annullando le differenze di genere è quello dell’istruzione; oggi le giovani donne studiano più degli uomini (il 57,1% dei laureati e il 55,4% degli iscritti a un percorso universitario nell’ultimo anno è donna), e con performance migliori: il 53,1% si laurea in corso, contro il 48,2% degli uomini; e il voto medio alla laurea è 103,7 per le donne e 101,9 per gli uomini.
Le donne sono in maggioranza anche negli studi post-laurea: degli oltre 115.000 studenti che nell’a.a. accademico scorso erano iscritti a un dottorato di ricerca, un corso di specializzazione o un master, il 59,3% era una donna.
Tra gli ambiti che maggiormente danno la misura degli squilibri di genere e che hanno ripercussioni sulla partecipazione e la posizione delle donne sul mercato del lavoro, vi è sicuramente quello della casa e della cura di figli e genitori, un impegno familiare che, ancora oggi, grava essenzialmente sulle donne, ancorché lavoratrici. Del resto, il 63,5% degli italiani riconosce, neppure troppo implicitamente, che a volte può essere necessario od opportuno (molto d’accordo il 28,6%, abbastanza d’accordo il 35,0%) che una donna sacrifichi un po’ del suo tempo libero o della sua carriera per dedicarsi di più alla famiglia.
Dunque in questi giorni abbiamo visto vetrine con grandi cuori rossi, accessori rosa, fiorai indaffarati a completare complicati mazzolini, bambini e bambine nelle scuole indaffarati per portare a casa alle mamme il pensierino: un business più o meno liturgico. Le italiane che lavorano sono molto meno degli uomini e, soprattutto, difficilmente ricoprono incarichi di responsabilità. Si tratta di fenomeni che sono comuni anche agli altri Paesi europei, ma che vedono il nostro in una condizione di ancora maggiore ritardo.
È soprattutto sul piano della partecipazione femminile al mercato del lavoro che si dispiega il gender gap rispetto ai maschi e la distanza dagli altri Paesi. La natalità precipitata poi non interessa solo noi ma tanti altri Paesi e natalità e occupazione sono strettamente collegate. Infatti, in quei Paesi in cui lavorano più donne si affronta meglio la sfida demografica. Noi stiamo perdendo intere generazioni a causa delle guerre, della povertà e della distruzione che portano, perché le guerre hanno un forte impatto sulla natalità, sia in termini diretti (mortalità) che indiretti (spostamenti, instabilità economica e sociale) che influenzano la scelta di avere figli.
La guerra compromette la nuzialità, ovvero la decisione di sposarsi, e la natalità, ovvero la decisione di avere figli, e questo riguarda almeno tutta l’Europa: la visione positiva del futuro, già molto provata, viene ulteriormente minata, e condiziona le decisioni più impegnative e responsabilizzanti, come è quella di costruire una famiglia.
Si dice che è soprattutto un problema culturale: non è vero. È un problema ancestrale che ci trasciniamo con l’aggravante degli assassini in famiglia che crescono, con politiche che umiliano la dignità femminile perché promettono ma non mantengono politiche fiscali adeguate, servizi sociali territoriali, sostegni concreti. E allora basta con le ipocrisie e avanti con le riforme. Non fiori e cotillon, ma opere di bene.
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