Con le proposte contenute negli emendamenti concordati tra le forze politiche della maggioranza parlamentare e che saranno votati nei prossimi giorni dalle Camere prendono forma i provvedimenti definitivi in materia di pensioni in attesa della riforma organica annunciata dal Governo da mettere a punto nel corso del 2023.
In attesa della riforma la gestione transitoria dei regimi di anticipazione dell’età pensionabile viene incardinata su tre tipologie di interventi: la prosecuzione con le stesse modalità di 4 regimi di anticipazione dell’età pensionabile (l’Ape social per i lavoratori anziani disoccupati, per i lavori usuranti o precoci e l’assegno straordinario per l’accompagnamento alla pensione dei lavoratori anziani coinvolti nelle ristrutturazioni aziendali); l’Opzione donna con il calcolo contributivo, con l’incremento dell’età pensionabile a 60 anni, che rimane a 58 anni solo per le donne con due figli a carico; la sostituzione della quota 102 (64 anni di età e 38 di contributi) che scade il 31 dicembre 2022 con la quota 103 (62 anni di età e 41 di contributi). È bene ricordare che queste forme di pensionamento anticipato si sommano al blocco dell’adeguamento dell’età pensionabile in vigore fino al 2026 per quelle di vecchiaia (67 anni) e di anzianità anticipata (42 anni e 10 mesi).
I trattamenti pensionistici minimi vengono incrementati in via ordinaria a 574 euro mensili e a 600 euro per i pensionati con più di 75 anni, tramite una super indicizzazione di queste rendite rispetto al dato inflazionistico.
L’intervento più corposo, finalizzato a contenere la crescita della spesa pensionistica, prevede una radicale revisione del sistema di adeguamento rispetto all’inflazione per il biennio 2023-24 per le pensioni lorde superiori a 4 volte i minimi di pensione (fino a 2.100 euro mensili che rimangono indicizzate al 100%), con la progressiva riduzione delle aliquote per le rendite più elevate che diventa consistente per quelle superiori di 10 volte tale minimo. Rispetto all’ipotesi originale viene aumentata dall’ 80% al 85% l’indicizzazione delle pensioni di importo fino a 5 volte il minimo (2.626 euro) da finanziare con una ulteriore riduzione (-3%) delle aliquote previste per gli importi superiori (a partire dal 52% per gli importi superiori a 5 volte il minimo a fino al 32% per quelle superiori di 10 volte).
Come illustrato in un precedente articolo, l’impatto della riduzione viene accentuato dall’applicazione della percentuale finale sull’intero importo lordo della pensione e non per scaglioni di reddito come previsto dalla legge vigente. Una modalità che può comportare effetti distorsivi sul valore finale delle pensioni. L’impatto strutturale della revisione delle indicizzazioni dovrebbe consentire un risparmio di spesa pensionistica tendenziale superiore ai 10 miliardi di euro nei prossimi tre anni e di 110 fino al 2032 con perdite individuali che oscillano tra i 13 mila e i 110 mila euro complessivi per circa 3,3 milioni di pensionati (stima Itinerari Previdenziali). Qualcosa di più del doveroso contributo di solidarietà dovuto nell’attuale situazione economica e sociale.
Questi interventi consentono di fare una valutazione complessiva sull’equità e sulla sostenibilità del sistema previdenziale. I vari rifacimenti intervenuti successivamente alla Legge Fornero hanno di fatto demolito tutti i pilastri della riforma del 2012 ad eccezione dell’impatto del calcolo contributivo pro quota sulle nuove rendite pensionistiche. Il proposito di mettere a punto una nuova riforma delle pensioni che riveda gli attuali regimi di anticipazione con l’introduzione di modalità flessibili di uscita dal lavoro “eque e sostenibili” da definire nel corso del prossimo anno, come annunciato dal ministro del Lavoro Marina Calderone, appare un obiettivo più difficile da ottenere rispetto a 10 anni fa. Perché nel frattempo è diminuito il rapporto esistente tra il numero dei lavoratori contribuenti e quello dei pensionati. Questo indicatore è destinato a peggiorare nei prossimi 18 anni per la perdita demografica di 5 milioni di persone in età di lavoro e il contemporaneo aumento di oltre 1,6 milioni di pensionati entro il 2039 (scenario Istat e Ragioneria dello Stato che tiene conto di una ripresa dell’adeguamento dell’età pensionabile in relazione alle aspettative di vita dopo il 2026).
In questo scenario la sostenibilità dei conti previdenziali può essere assicurata solo con un aumento dei trasferimenti di risorse statali a carico della fiscalità generale verso il sistema previdenziale (pressoché raddoppiate nel corso degli ultimi 15 anni per le integrazioni dei minimi pensionistici, gli anticipi dell’età pensionabile, i contributi figurativi sui sostegni al reddito e gli sgravi contributivi sulle nuove assunzioni), e sul fronte delle uscite con un progressivo decremento della spesa destinata a difendere il valore reale delle pensioni erogate, in particolare di quelle godute dagli ex lavoratori che hanno versato più contributi.
Conciliare l’anticipazione strutturale dell’età pensionabile, la riduzione del cuneo fiscale sulle retribuzioni con il trasferimento a carico dello Stato di altri 5 miliardi per ogni anno per la tenuta del valore reale delle pensioni in essere risulta pressoché impossibile. Altrettanto complicato introdurre nella riforma una pensione minima di garanzia per le giovani generazioni promessa dall’intero arco delle forze parlamentari. Ma quanto sta avvenendo comporta seri problemi di equità non solo tra le generazioni, ma anche all’interno della platea dei lavoratori/ pensionati.
L’insieme di questi interventi sconta due errori molto gravi. Il primo è quello di assimilare i beneficiari delle pensioni di basso importo alle persone meno abbienti, anziché a quelle dei lavoratori che hanno versato pochi contributi nel corso della carriera per svariati motivi, baby pensionati e periodi di lavoro sommerso inclusi.
Secondo l’Osservatorio dell’Inps la parte più significativa dei titolari delle doppie e triple pensioni comprese nei 22 milioni di assegni pensionistici erogati mensilmente a 16,5 milioni di pensionati, si concentra tra i percettori delle pensioni minime fino ai 525 euro mensili, circa 2,1 milioni, pari al 13% dei pensionati, che beneficia del 33% del totale delle rendite pensionistiche. Una quota che arriva al 64% se si considera anche lo scaglione dei pensionati con importi mensili fino a due volte il minimo (altri 3,8 milioni). L’eventuale decisione di aumentare le attuali pensioni minime su valori decisamente superiori a quelli attuali, oltre il contenuto incremento aggiuntivo al recupero dell’inflazione previsto nella nuova Legge di bilancio, comporta inevitabilmente anche l’adeguamento degli importi di buona parte delle pensioni dello scaglione superiore fino all’importo del nuovo minimo.
L’Osservatorio sui Conti pubblici della Università Cattolica di Milano ha stimato un costo aggiuntivo di 20 miliardi di euro dell’eventuale aumento delle pensioni minime a 10.00 euro mensili che diventano 31 se si tiene conto dell’adeguamento delle altre pensioni attualmente al di sotto di questo importo. Un’autentica beffa per tutti coloro che hanno versato fior di contributi previdenziali per ottenere una pensione non assistita da contributi dello Stato, e che in via ordinaria devono già contribuire al regime di solidarietà interno con una minore valorizzazione dei contributi versati e con la mancata indicizzazione rispetto all’andamento dei prezzi.
Il secondo errore è quello di considerare il sistema pensionistico come un ambito parallelo a quello fiscale da utilizzare per redistribuire il reddito. Con il risultato di mettere a carico della stessa platea di pensionati il finanziamento del sistema previdenziale con i canali della solidarietà interna richiamati e tramite le ritenute fiscali che arrivano a prelevare quasi la metà del reddito percepito (il 43% dell’aliquota Irpef e le addizionali regionali e locali) per coprire la componente assistenziale della spesa pensionistica a carico dello Stato.
Secondo un’indagine recentemente pubblicata da Itinerari Previdenziali, buona parte dei pensionati che vedono ridotta la tutela del valore reale della pensione appartiene a quei 5 milioni di contribuenti fiscali che si fanno carico del finanziamento della quasi totalità delle prestazioni sociali e assistenziali erogate dallo Stato.
In queste condizioni teorizzare il recupero della sostenibilità del sistema previdenziale separando le voci degli interventi assistenziali da quelli previdenziali appare priva di senso. In entrambi i casi sono sempre gli stessi contribuenti che se ne devono far carico. Ma quanto può sopravvivere un sistema che continua a penalizzare chi contribuisce a sostenerlo?
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