Il ministro Calderone vuole ampliare le pensioni anticipate. I problemi di una soluzione che non considera quanto si resta a carico dei lavoratori attivi
‘’Per quanto mi riguarda è importante lavorare sicuramente anche per ampliare quelle che sono le condizioni di vantaggio, di anticipazione dell’uscita”. Quando ho letto queste dichiarazioni del Ministro del Lavoro Marina Calderone al Forum di Cernobbio mi sono cadute le braccia. Più ancora del dissenso ha operato lo sconforto: in questo paese, cambiano le maggioranze e i governi, si ribalta il mercato del lavoro, si invertono gli assetti demografici, crolla la natalità ed esplode l’invecchiamento; per quanto riguarda l’occupazione si passa dalla retorica dell’esercito di riserva alla crisi sul lato dell’offerta, ma noi siamo sempre intenti a ‘’rammendare le solite vecchie calze’’ dell’età pensionabile.
Nelle precedenti leggi di bilancio il governo – dando prova di quella benedetta incoerenza rispetto agli impegni programmatici delle forze politiche che lo sostengono: incoerenza che ha salvato l’Italia – aveva dato prova di non essere assatanato sui temi delle pensioni, aveva rimosso alcune delle zeppe più perniciose messe in circolazione dal Conte 1 e recuperato alcune misure fondamentali per un disequilibrio sostenibile del sistema anticipando di due anni la fine del blocco dell’aggancio automatico dei requisiti anagrafici e contributivi del pensionamento rispetto all’incremento dell’attesa di vita. Tanto che nel corso del 2025 le famigerate pensioni di anzianità erano diminuite del 9%.
Perché la titolare delle politiche previdenziali annuncia un cambio di linea e promette di lavorare per ampliare le fattispecie di anticipo della pensione? Da che cosa nasce questa esigenza? Non certo da fabbisogni razionali. Abbiamo davanti a noi alcuni anni (una ventina circa) in cui si stima un esodo massiccio (almeno 2,5 milioni) di pensionati a fronte di una netta diminuzione (di 5-6 milioni) di popolazione in età di lavoro. Un adeguamento dell’età pensionabile alle attese di vita può, quanto meno, dilazionare il numero dei trattamenti; per quanto concerne, invece, l’ampliamento della base dei lavoratori attivi e contribuenti, ammesso e non concesso che nuovi interventi di sostegno alla natalità siano attuati e che consentano l’inversione di tendenza rispetto al declino demografico e agli effetti determinati nel mercato del lavoro, sarebbero comunque necessari decenni per un adeguato ‘’ripopolamento’’, tanto che sarebbe comunque più efficace una maggior presenza di stranieri nella società e nel mercato del lavoro.
In un sistema finanziato a ripartizione non ha senso considerare una pensione sulla base del tempo in cui si è lavorato e versato ma è necessario anche tener conto – sul piano attuariale – anche del periodo in cui i pensionati/lavoratori di ieri saranno a carico degli attivi di domani; di costoro, anche senza avventurarsi nel campo della qualità dei loro rapporti di lavoro e dei loro redditi, sappiamo già con certezza che saranno in numero minore perché non sono nati. Basta osservare l’attuale struttura del mercato del lavoro dove sono prevalenti le coorti degli over 50, mentre, a scendere nelle altre fasce di età si assiste ad un décalage che non garantisce la sostituzione di chi entra nel mercato del lavoro rispetto a chi esce.
Vi è poi un altro handicap strutturale evidenziato dall’Ocse: in Italia la durata media della vita lavorativa è di 32,8 anni a fronte dei 37,2 anni di vita lavorativa media nell’Europa a 27. I Paesi dove si lavora più a lungo sono l’Olanda (43,8 anni), la Svezia (43 anni) e la Danimarca (42,5 anni). La Germania arriva a 40 anni, la Francia a 37,2 anni e la Spagna un poco sotto, a 36,5 anni. Ma la durata media della vita lavorativa in Italia si spiega con le statistiche di Trilussa, nel senso che mette insieme un consistente differenziale di genere, soprattutto nel settore privato: l’anzianità media degli uomini è pari a 36 anni circa, quella delle donne a 26. Un altro aspetto rilevante – si veda il XXIV Rapporto dell’Inps – è l’aumento del differenziale di età effettiva tra pensioni di vecchiaia e pensioni anticipate, che passa da 3,8 anni nel 2012 a 5,6 anni nel 2024.
Questo ampliamento è dovuto sia all’innalzamento progressivo dell’età media di accesso alla pensione di vecchiaia, cresciuta di 3,5 anni, sia a un aumento, seppur più contenuto, dell’età media delle pensioni anticipate (+1,7 anni). La divergenza riflette l’innalzamento del requisito anagrafico per la vecchiaia, a fronte dell’assenza di un requisito anagrafico minimo per quella anticipata. Tra il 2023 e il 2060 la popolazione in età lavorativa in Italia diminuirà del 34% e il numero di anziani a carico di ogni persona, in età lavorativa, aumenterà fino ad arrivare a 1 contro 1. Nello stesso periodo il rapporto tra occupati e popolazione totale diminuirà di 5,1 punti percentuali.
Per far fronte a questa situazione, secondo l’Ocse: «Le politiche del lavoro devono evolvere per aiutare i lavoratori a rimanere più a lungo nel mondo del lavoro». Sempre nell’intervista al Forum Calderone si muove su di un altro terreno accidentato: il governo sembra intenzionato a non dare applicazione al meccanismo di incremento automatico dei requisiti come previsto in misura di un’aggiunta di tre mesi a partire dal 2027. Eppure avrà pure un significato la raccomandazione della RGS secondo la quale ‘’la funzione, come riconosciuto in sede europea e internazionale, di coniugare le esigenze di sostenibilità del sistema pensionistico con quelle di adeguatezza delle prestazioni’’? Tanto più che – secondo la RGS – ‘’ la rimozione permanente di tali meccanismi endogeni, a condizioni invariate, comporterebbe un incremento del rapporto debito / PIL di circa 20 punti percentuali al 2045 e di circa 60 punti percentuali al 2070’’.
Da ultimo viene la questione del tfr il cui utilizzo è stato proposto dal sottosegretario Claudio Durigon per ridurre l’età pensionabile da 67 a 64 anni. Calderone non intende impegnarsi su questo terreno lasciando intendere di prestare più interesse per la previdenza complementare. In proposito afferma che sarebbe utile un nuovo semestre di silenzio assenso, perché far comprendere alle giovani generazioni quanto sia importante oggi costruire un secondo pilastro pensionistico da collegare anche ad altre garanzie che possono”. Ma è una strada percorribile?
A questo proposito segnaliamo uno studio di due economisti come Giampaolo Galli e Nicolò Geraci dal titolo: ‘‘’Che ne è del TFR devoluto al fondo INPS?’’. Infatti, il tfr che i lavoratori lasciano a disposizione dell’impresa, nelle aziende da 50 dipendenti in su viene devoluto al Fondo Tesoro presso l’Inps a disposizione dello Staio per la spesa corrente. Di conseguenza, i lavoratori non possono chiedere che il loro tfr pregresso (ossia versato all’INPS in anni precedenti) venga devoluto a previdenza complementare, perché è stato impiegato. Dal punto di vista della contabilità pubblica sarebbe come chiedere la restituzione di una tassa.
L’altra conseguenza è che non è più possibile realizzare una campagna pubblica (più volte sollecitata, ma invano) per l’adesione alla previdenza complementare con il metodo del silenzio-assenso perché ciò richiederebbe di trovare un’adeguata copertura ai mancati introiti dell’INPS relativi al tfr maturando. Poiché il tfr che affluisce all’INPS ogni anno è nell’ordine dei 6 miliardi di euro, gli autori hanno anche fatto il calcolo della copertura che sarebbe necessaria. Se aderisse ai fondi di previdenza complementare anche solo il 10% dei lavoratori delle aziende con più di 50 dipendenti si dovrebbe trovare una copertura per circa 600 milioni. In sostanza, il governo diventerebbe parte in causa e sarebbe interessato al mancato successo della previdenza privata.
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