È stato interessante osservare come 43 rappresentanti di altrettante organizzazioni delle imprese, delle professioni e del lavoro si siano espressi allo stesso modo – senza essersi prima consultati – su tre temi di cruciale importanza per la definizione di una politica di medio termine rivolta alla crescita del Paese. Il pronunciamento è avvenuto lunedì scorso intorno al tavolo predisposto al Viminale dal ministro dell’Interno Matteo Salvini in funzione di ascolto di associazioni e sindacati. I tre punti cruciali sono il taglio al cuneo fiscale, il rilancio delle infrastrutture, il no all’introduzione per legge del salario minino.
Taglio al cuneo fiscale vuol dire abbassare il peso di tasse e contributi che grava sullo stipendio di un lavoratore fino al 120% del suo ammontare. Per ogni mille euro che il lavoratore percepisce in busta paga, dunque, l’azienda ha un esborso che può arrivare fino 2.200 euro. Una situazione diventata insostenibile.
Per effetto del Patto della Fabbrica firmato da Confindustria con Cgil, Cisl e Uil le risorse recuperate con il taglio andrebbero tutte a vantaggio dei lavoratori che così si metterebbero più soldi in tasca, vedrebbero aumentare il loro potere di acquisto e presumibilmente sceglierebbero di consumare di più facendo ripartire la domanda. Quello che si dice il circolo virtuoso dell’economia che si completa con più occupazione e maggiori investimenti: la risposta alla caduta di fiducia che si porta dietro il rinvio di ogni decisione di spesa da parte degli imprenditori e la conseguente mancanza di lavoro che tra i giovani del Mezzogiorno presenta profili tragici.
Riaprire i cantieri, avviare cioè un grande piano per dotare il Paese e l’Unione delle infrastrutture che servono a garantire competitività al sistema per evitare che l’Europa diventi nient’altro che un grande mercato di sbocco per le merci di altri, è il secondo imperativo categorico scaturito dal confronto.
Le infrastrutture uniscono, includono, connettono persone e territori. Sono indicative di una società aperta, proiettata verso il futuro e non ripiegata su stessa. Il loro rilancio consentirebbe all’Italia di giocare con profitto politico ed economico il ruolo di piattaforma tra l’Europa e il Mediterraneo che la posizione geografica le attribuisce.
Come già in altri casi – Decreto dignità, Reddito di cittadinanza – con il salario minimo orario fissato per legge si rischia di ottenere il risultato opposto a quello desiderato. In sintesi, abbassare il livello medio delle retribuzioni e delle prestazioni ricevute dai lavoratori – anziché elevarlo – mettendo in crisi la struttura dei contratti. Com’è emerso proprio intorno al tavolo del Viminale, infatti, se è vero che l’istituto del salario minimo è presente in molti Paesi anche europei, è anche vero che in questi Paesi non esiste una struttura e una dinamica dei contratti robusta ed evoluta come la nostra: con diritti incorporati particolarmente favorevoli.
Il livello dei salari – è stato obiettato da tutti – dovrebbe essere agganciato a qualche parametro oggettivo (per evitare l’arbitrio del legislatore) e discendere dal riconoscimento delle organizzazioni maggiormente rappresentative per evitare la concorrenza sleale di piccole formazioni pirata che giocano al ribasso.