Il primo dato del voto di ieri è l’astensionismo sempre più massiccio. A Siena Enrico Letta è stato eletto appena dal 35,6% degli aventi diritto, a Napoli Gaetano Manfredi dal 47,2, a Milano Giuseppe Sala dal 47,7, a Bologna Matteo Lepore dal 51,9. La media nazionale è del 54,7% contro il 61,6% del corrispondente turno precedente. È un segnale di sfiducia collettiva che non risparmia nessuno. Milano, Napoli e Bologna non erano governate dal centrodestra, che magari non avrà guadagnato voti ma non ne ha neppure persi. Il partito dell’astensionismo pesca ovunque, nella destra, nella sinistra e nella profonda delusione verso i 5 Stelle. Letta canta vittoria, ed è comprensibile perché il seggio alla Camera del collegio uninominale è suo, ma in una delle città più rosse d’Italia il segretario nazionale del Pd ha dalla sua soltanto il 17% dell’elettorato complessivo. In un’altra capitale della sinistra, è assurdo sostenere che i bolognesi rimasti a casa (il 48% dell’elettorato) siano tutti della controparte. E come mai Sala non è riuscito a chiamare alle urne le zone centrali di Milano, quelle tradizionalmente più vicine alla sinistra radical chic di cui il riconfermato sindaco è esponente?
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I risultati di ieri fotografano l’incertezza e il disorientamento che ancora predominano negli italiani, i quali saranno anche vaccinati e disciplinatamente muniti di green pass, ma non riescono a togliersi di dosso la pesante coltre di paura stesa dalla pandemia. L’autocritica dev’essere di tutti, non soltanto di chi ha perso. La distanza tra il Palazzo e le periferie è sempre più profonda e più difficile da colmare: lo dimostra il fatto che – con l’eccezione di Milano – proprio nelle aree cittadine più marginali l’affluenza alle urne è stata più bassa.
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Solo dopo si può analizzare l’esito del voto, che ha premiato senza dubbio il centrosinistra. Nei grandi centri il centrodestra ha sempre zoppicato perché il problema della leadership e delle classi dirigenti di quei partiti è sempre esistito e non è un problema di oggi. Il mea culpa di Matteo Salvini è comunque giusto: scelte più centrate e prese con maggiore anticipo avrebbero portato a risultati migliori. È l’esito del testa a testa tra il segretario leghista e Giorgia Meloni, enfatizzata nei sondaggi come la “destra presentabile” a differenza dell’uomo nero Salvini.
Ma il cattivo responso delle urne riflette anche il fatto che in questo momento il centrodestra è un’espressione che si riferisce al passato e non al presente, dove i tre partiti maggiori hanno posizioni diverse su tante questioni fondamentali, a partire dall’appoggio al governo. Si spiega così il fatto che nelle grandi città non c’è una fetta di centrodestra che sia andata meglio delle altre. Male ha fatto Bernardo a Milano, scelto da Ronzulli e Berlusconi; e così pure, benché sia davanti a Gualtieri, ha deluso Michetti a Roma, imposto dalla Meloni. Ha tuttavia raccolto un consenso inferiore al previsto anche Damilano a Torino, un candidato moderato, indicato dalla Lega “dialogante” più vicina a Giorgetti che a Salvini. Non pervenuto Battistini a Bologna, il classico candidato proveniente dalla società civile: nemmeno quella funziona più.
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Chi esce peggio di tutti è comunque il M5s, che perde voti e poltrone. Per molti i grillini avevano rappresentato una speranza di riscossa, un tentativo di “rivoltare il Paese come un calzino”. Ora però sono finiti in mano prima a Luigi Di Maio, disinvoltamente presente in tre maggioranze diverse di governo come nella migliore tradizione trasformistica, e ora a un professionista dell’indecisionismo come Giuseppe Conte. Lo schiaffo più sonoro dagli astensionisti l’hanno preso proprio loro, gli ex del “vaffa”.
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