Il voto mancato al primo turno delle attuali elezioni amministrative, da parte di più della metà degli aventi diritto in città come Roma (51% di astenuti), Torino (52%) e Milano (52%), costituisce un segnale non banale e, soprattutto, non archiviabile nelle categorie dell’antipolitica. Non si è dinanzi alla protesta urlata contro un universo di rappresentanti ritenuti segnati da scarse qualità morali e da ancor più scarse competenze amministrative.
Il fatto che il non voto riguardi città che storicamente costituiscono degli esempi di impegno civico porta infatti a pensare che dietro ad un tale comportamento, in sé politicamente letale, vi sia qualcosa che va ben oltre il giudizio negativo nei confronti dei candidati o dei partiti che li sostengono.
Il prevalere del partito del “non voto” non riguarda infatti i partiti politici, né i singoli candidati, ma sancisce il radicarsi di una perplessità verso le istituzioni che prima di essere politica è soprattutto strutturale.
Rintracciare le ragioni di quest’ultima obbliga innanzitutto a fare i conti con lo scenario nel quale queste elezioni amministrative hanno finito con l’essere poste. L’alto livello di fibrillazione istituzionale ha finito infatti per farle percepire, almeno da una parte di molti elettori, come un confronto puramente politico nel quale i risultati sarebbero serviti innanzitutto a riparametrare i rapporti di forza, prima ancora che a governare i singoli territori. Un tale giudizio ha verosimilmente lasciato una parte degli elettori a casa gonfiando così l’area di quanti praticano il non voto.
Una seconda ragione ha tuttavia fondamenta più profonde ed è consistita nel prendere forma di una nuova ragione per il “non voto”: quella che lo ritiene semplicemente inutile rispetto al livello dei problemi in corso. Alla protesta della “porta sbattuta” verso una classe politica che si giudica “irredimibile”, una classe che non sa, né vuole cambiare, si è unita la percezione di chi ritiene semplicemente che i problemi attuali siano di ampiezza tale da non poter più essere risolti, qualunque sia il responso delle urne.
Una simile attitudine è tanto più grave quanto più rivela la percezione, venata di amarezza, di una realtà bloccata e non superabile. C’è, in altri termini, non solo una dolorosa sfiducia nelle istituzioni democratiche e nella loro capacità di far ripartire una nazione oramai decisamente bloccata sul piano economico e rassegnata al declino su quello sociale. Accanto a questa si rinforza sempre di più la percezione di un universo globale fuori controllo, dinanzi al quale i dibattiti-bandiera innalzati dalle diverse forze politiche possono poco o nulla.
E paradossalmente è proprio l’universo delle elezioni amministrative a rivelarlo in quanto, proprio perché i problemi sono di carattere strutturale e richiedono scelte radicali, è assolutamente impossibile, ad avviso dei “nuovi astensionisti”, che i governi locali, serrati nell’attuale quadro delle competenze, possano essere gli apripista di un simile mutamento.
L’amministrazione di una città, il suo buon governo, sono poco compatibili con una situazione di costante allarme sociale (energetico, biologico e sanitario al tempo stesso) e con le fibrillazioni continue causate dall’endemica incertezza istituzionale. Non c’è spazio per nessun buon governo nelle città quando l’intero Paese è costantemente costretto a vivere nel puro susseguirsi delle emergenze e dove nessuna è mai veramente risolta, ma solo destinata ad essere superata da quella successiva.
Una tale spiegazione del non voto che lo vede come l’esito di una percezione di ingovernabilità del mondo confina la partecipazione elettorale, specialmente quando riguarda le sole dinamiche amministrative, ad un ruolo comunque secondario rispetto alle emergenze percepite e costantemente rilanciate. La reiterazione costante di quest’ultime finisce così con il porre le premesse per una crescente disaffezione all’impegno elettorale, soprattutto quando concerne la governabilità di un mondo ordinario, percepito, oggi più che mai, come assolutamente secondario.
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