In attesa di tornare alla musica live, anche un bel disco come il nuovo lavoro di Roberto Spadoni ci permette di godere delle stesse sensazioni

Nell’irrisolto dilemma sensoriale se il Governo abbia visto i bauli di Roma, si consiglia – nel frattempo – di ascoltare la musica nuova che gira. Certo, non si vedrebbe l’ora di ascoltarla anche nella sua naturale dimensione live, specie quando capitano a tiro chicche inattese come Mah di Roberto Spadoni. Giova, intanto, poterne godere in cuffia e non è poco.



Direttore e compositore di grana fine, il musicista romano abbandona per un attimo le big band jazz che dirige da anni con i suoi arrangiamenti e torna a un piccolo ensemble dove riabbraccia la sua chitarra e mette su un quartetto che, però, fa suonare come un’orchestra, grazie anche alla solidità dei sodali scelti per la navigazione: Fabio Petretti (sax), Massimo Manzi (batteria), Paolo Ghietti (contrabbasso).



L’alchimia di questo album uscito da qualche settimana in formato fisico e digitale è, in fondo, tanto semplice che non varrebbe neanche troppo starne a parlare: è pieno di bella musica. Lo è perché i 9 brani per 46 minuti di ascolto sono costruiti con desueta artigianalità ed esperienza: temi accattivanti e non di rado “spiazzanti”, armonie bluesy e nient’affatto scontate, equilibrio nelle parti improvvisative sempre attente al massima interplay, arrangiamenti pensati con l’idea di costruire un sound forte e credibile. E certo, questo dovrebbero fare i progetti musicali originali, ma è altrettanto certo che trovarne di coerenti sta sempre più diventando un’araba fenice.



Il risultato è un groove che non molla mai la presa dalla title track d’esordio (Mah) costruita con la struttura a trentadue battute di un anatole a Fuga di notizie che si diverte a giocare sui piani sfalsati della ritmica (con quattro tempi che s’accorciano di passaggio a tre) e dello spostamento tonale del tema; dalla ballad Buonanotte che oscilla tra ambiti even eight e intervalli di libertà nell’esposizione del tema e Ce la posso fare, un up tempo con un tiro pazzesco intriso di swing.

Quando s’ascolta per la prima volta questo album vien da saltare sulla sedia e dire: finalmente! Perché è radicalmente, indefettibilmente jazz. Senza occhieggiare a derive sperimentali, tiene piuttosto la barra dritta in un linguaggio che a qualcuno sembra aver detto tutto, solo perché non lo sa articolare correttamente. Con riprese di stilemi tradizionali (su tutti sembrerebbe vincere un certo gusto per le sbilenche soluzioni armoniche e melodiche di Monk e il gusto nella scrittura delle parti di Mingus), Spadoni mette su una pirotecnica scoppiettante di blues e bop che ha, per l’ascoltatore, due notevoli effetti benefici: il divertimento e la cantabilità.

Ed è proprio nel rinnovato gusto melodico, forse il grande assente delle produzioni maggiori negli ultimi anni, che Mah ha il suo maggior pregio, con la scrittura di temi ballabili e vamp ritmici costruiti per articolare tensioni e risoluzioni. Una strana macchina del tempo questo album, capace di portare indietro a sonorità elettriche anni Novanta e insieme disegnare una strada per il futuro del jazz, in cui i suoi elementi distintivi restano le uniche bussole per costruire nuove possibilità.

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