Vorrei dire al Presidente Napolitano che ha ragione, tragedie come quella che ha colpito quattro bambini, bruciati vivi nella baraccopoli della Capitale, non devono più accadere. Temo però che potrebbero accadere ancora, e i moniti servono a poco. Vorrei dirgli che quel dramma ricade su di me solo per il dolore di vite spezzate, per l’impotenza a salvarle. Ma non mi sento in colpa, non più dei genitori cui doverosamente è andato a portare il suo cordoglio.
Anzi, la ragione mi dice che quei genitori avrebbero dovuto lasciare che, ad occuparsi dei loro figli, fossero i servizi sociali, famiglie accoglienti pronte ad un affido temporaneo. Integrazione è una bella parola, va molto di moda, e tutti sembrano avere la ricetta giusta per attuarla. Si dà il caso che i destinatari dell’integrazione non la vogliano affatto. Che si fa, si usa la forza pubblica?
Verrebbe la tentazione di rispondere sì, la vita di quattro bambini vale anche questa emergenza muscolare. Ma anche appostamenti, retate, sgombri, non servirebbero a fermare la disperazione, l’ignoranza, la miseria innanzitutto umana che ci viene incontro. E il gioco prezioso della libertà, che pure può scegliere il male, per sé e perfino per i propri figli. Dobbiamo smetterla di attribuire ogni responsabilità alla società indifferente. Chi sfrutta i bambini, ad esempio, è giustificabile rimandando a una diversa civiltà, a diverse tradizioni e costumi?
Non ci trovo nulla da difendere, nulla da preservare, in questi modelli di civiltà. Vorrei anche dire al nostro sindaco che è vero, lo dice da anni, bisogna ripulire, allestire, controllare i campi Rom autorizzati, portarci con le buone o le cattive tutti quelli che vogliono restare nel nostro paese. E gli altri a casa. Chi ce li porta? E ci consola liberarci del problema, lasciando che altri bambini muoiano in un incendio o per il freddo in un Paese che si chiama europeo?
È difficile, per liberarsi in questi casi dalla retorica e dagli opportunismi, non rischiare altra retorica, che ammanta solo il cinismo. Tanto, non tocca a noi in prima persona occuparcene, c’è sempre un’autorità su cui infierire. Eppure. Leggevo in questi giorni la biografia di un personaggio dimenticato della nostra storia risorgimentale. Per forza: una donna, e in odore di santità.
In una controstoria del Risorgimento invece, la Marchesa torinese Giulia di Barolo merita una targa lucente. Donna colta, potente, ricca, che dedica l’esistenza a cercare per strada i poveri più derelitti, ma soprattutto i delinquenti, le prostitute e le madri degeneri. Le visita nelle carceri fatiscenti dell’illuminata dinastia sabauda; non giudica, ma porta la possibilità di un riscatto, che faccia scattare la coscienza della dignità dell’uomo. L’educazione.
Si reca lei stessa, e con lei le sue amiche e i sacerdoti che incarica (tra cui don Giovanni Bosco) a cercare i peggiori (non erano meglio dei nostri barboni e zingari di strada: erano più sporchi, più rozzi e ignoranti) ad approntare scuole di fortuna, dove insegnare ad aver cura di sé, ad aver rispetto di sé, pietà di sé, a leggere e scrivere e lavorare.
Importuna con ogni mezzo i regnanti (anticlericali e massoni? Eppure…) e ottiene di poter fare quello che vuole, ottiene soldi e case e permessi. Le carceri di Torino sotto la sua guida diventano un modello apprezzato oltreoceano. Si può dunque, si chiama sussidiarietà. Valutando con occhio vigile, ci sono tante associazioni e opere di carità capaci di andare a cercare anche i rom, di visitarli settimanalmente, di tenere d’occhio e far giocare, studiare, accompagnare anche i loro bambini. Tocca fidarsi, e sganciare qualcosa.
Ma ne vale la pena. Senza educazione, ogni proposito e ogni severa misura di controllo sono inutili, vuote. Senza educazione, per chi la riceve e chi la fa, siamo destinati a restare indifferenti o cattivi. Tutti quanti.