A bocce ferme, a giochi fatti, in un Festival di Sanremo 2023 tra i più noiosi, omologati e dal contenuto musicale più scarso che si ricordi, i più trasgressivi, punk e liberi ci sono sembrati i quasi novantenni Gino Paoli e Ornella Vanoni. A fronte di una masnada di ragazzini che vanno a Sanremo per combattere battaglie ideologiche e astratte, che nella realtà fuori dell’Ariston sono ormai state digerite, inglobate, approvate e catalogate, nel nome di una sessualità senza generi, Gino Paoli ha cantato meravigliosamente per quanto l’età glielo possa permettere – a quei giornalisti e membri del pubblico che si sono detti delusi, vadano loro alla stessa età a cantare – e si è espresso senza freni come una sorta di Johnny Rotten dei Sex Pistols dei bei tempi andati. Se è vero che a un uomo (o donna) anziano/a è permesso di dire quasi tutto, e se è vero che dei morti bisognerebbe avere rispetto, lui se ne è infischiato bellamente ironizzando sullo scomparso Little Tony (ma voleva soprattutto ironizzare sullo stile di vita della sua generazione) mentre Morandi e Amadeus cercavano di zittirlo: nel buon nome di che cosa dopo quello che si era visto su quello stesso palco? Qualche whiskey bevuto in camerino come sua abitudine, che quasi non si reggeva in piedi, da parte di un uomo che ha vissuto una vita sulla corsia di sorpasso con una pallottola nel cuore da quasi sessant’anni e una insolenza anche oltraggiosa se proprio vogliamo dirlo ma, e questo i ragazzini che vanno a Sanremo dovrebbero impararlo, non gli hanno impedito di comporre e cantare una miriade di brani meravigliosi: è questa la differenza tra la sua generazione e quella odierna. Ha incantato e commosso tutti con tre brani soltanto, ma che brani: Una lunga storia d’amore, Sapore di sale e Il cielo in una stanza.
Lo steso dicasi di una Ornella Vanoni sempre più svampita (ma tenerissima) che insulta il simbolo stesso di Sanremo, i fiori, chiedendo le siano portati dei carciofi: non è punk? E poi si rivolge quasi sprezzante a Fedez, che è stato pochi minuti prima portato sul palco a subire il bacio sulla bocca da parte di quell’oggetto senza ma e senza come, che risponde al nome di Rosa Chemical, provocandolo, dicendogli di andare da lei. Fedez sprofonda in poltrona, ha capito che anche lei lo vorrebbe baciare sulla bocca – ma solo per prenderlo in giro -, fa lo schifato e il disgustato. Poveretto, come sei banale. Poi, con le forze che ha, ci ha regalato un accenno di quella che probabilmente è la più bella canzone italiana di sempre, L’appuntamento.
E a proposito di chi ha criticato il canto di Gino Paoli, un vero artista sa adattare la sua voce all’età che ha: sì, qualche parola non l’ha cantata, ma pronunciata. E’ uno stile adottato anche da Frank Sinatra quando era ormai anziano, ed è uno stile affascinante e commovente. Un gigante in mezzo ai nani.
Insomma il direttore artistico di Sanremo, nella sua fame di ascolti, ha fatto un patetico auto goal. Lo si era già capito quando si era esibito un trio che tutti insieme fanno circa 220 anni, Massimo Ranieri, Gianni Morandi e Al Bano. Un po’ troppo piacioni per come si sono esibiti, hanno però sfoderato anche loro canzoni stupende. E poi di nuovo Morandi sempre nella serata finale, con il tributo a Lucio Dalla, cantato in maniera superlativa per un altro 80ennne.
Un auto goal quello della direzione artistica impietoso verso tutto e tutti: un tributo a dei grandi vecchi, che vicini all’ultimo respiro impartiscono lezione di canto e canzoni a questi giovinastri senza futuro. E che hanno letteralmente rubato il Festival di sanremo 2023.
Non vale neanche la pena scrivere di loro: stonati, momenti di psicodramma gettandosi nelle braccia di Amadeus in lacrime, probabilmente una carenza affettiva che caratterizza questi giovani rivolta alle persone sbagliate. Di voi l’anno prossimo si saranno già dimenticati. Autotune come se piovesse, brutte melodie, vocine da gatto in calore (Mengoni, il vincitore), look imbarazzanti (“Mi sono messa in giacca e cravatta perché uomini e donne devono potersi vestire uguali”). All fine non sai se stai guardando Zelig dove è d’uso fare le parodie comiche dei cantanti o uno spettacolo di canzoni vere.
Uno spettacolo talmente in cortocircuito che il giorno dopo sui giornali si leggevano lamentele perché tra i primi cinque non c’era neanche una donna: ma se tutto il festival è stato all’insegna dell’abolizione dei generi sessuali in nome di una unicità di genere, perché lamentarsi se tra i primi cinque ci sono solo uomini? Gli uomini e le donne non esistono più, lo dite voi da anni.
Due cose soltanto ancora: che al Festival della canzone italiana, nelle serate delle cover, vinca un brano dei Beatles cantato in arrangiamento gospel, cioè non una canzone italiana e un genere che non ci appartengono, fa ridere. Ma ci dice che davanti a un Paul McCartnery spariscono tutte le canzoni italiane, almeno quelle di oggi.
Fa ridere di meno invece che il Presidente della Repubblica abbia sdoganato e avallato Sanremo con la sua presenza. Una volta il Capo dello Stato lo si vedeva solo alla prima della Scala: per quanto ne dica Zelensky, a Sanremo non si fa più cultura da un bel po’. E se al sottoscritto piace che Mattarella abbia scavalcato i vertici di una Rai autoreferenziale affamata di soldi, non ha certo dato un bell’esempio di correttezza istituzionale. Punk anche lui?
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