Oggi ci troviamo in mezzo a uno dei periodi storici più travagliati per il mantenimento e lo sviluppo democratico
Venerdì 7 marzo 2025, nemmeno tre mesi fa, il Global democracy index, curato dall’Economist, faceva una valutazione allarmante, che non pare essere stata presa in seria considerazione dai media di tutto il mondo e dai “salotti televisivi”, che “pontificano sul nulla” nell’analisi del potere.
Secondo questo indice, nel 2024 solo il 45% della popolazione mondiale viveva in una democrazia, il 39% sotto regimi autoritari e il 15% in sistemi cosiddetti “ibridi” (dove coesistono istituzioni democratiche e restrizioni da regimi autoritari).
Da dieci anni, mentre si “beatificava” la globalizzazione e non si metteva neppure in discussione il mercato, il suo ruolo, la sua funzione non accompagnata da regole precise, condannando keynesismo e il ruolo dello Stato anche in economia, come invece molti socialisti liberali sostenevano, il livello di democratizzazione degli Stati è in continuo declino.
Questo è il messaggio principale del Global democracy index, nel suo documento annuale relativo al 2024. Il documento valuta ogni anno 167 Paesi e territori su una scala da zero a dieci basata su cinque criteri: processo elettorale e pluralismo, funzionamento del governo, partecipazione politica, cultura politica e partecipazione civile. I Paesi sono poi raggruppati in quattro categorie: democrazie complete, democrazie imperfette, regimi ibridi e regimi autoritari.
Quello che maggiormente allarma è che la democrazia sembra in caduta libera, mentre le autocrazie sembrano guadagnare forza, Sempre secondo il documento, il 2024 è stato segnato da una “disaffezione generale per la democrazia” cresciuta in tutto il mondo. Questo fenomeno sarebbe causato dalla mancanza di fiducia nei Governi, dalla scarsa efficacia con cui i rappresentanti politici affrontano i problemi dell’elettorato e da un deficit civico e di rappresentanza politica. L’effetto è un sentimento generale di disillusione per le istituzioni democratiche, che contribuisce a far crescere populismo, disimpegno politico e polarizzazione.
Un uomo nato alla fine del 1600, come Charles Louis de Montesquieu sembrava aver compreso il nodo della questione. Nel suo trattato “Lo spirito delle leggi”, Montesquieu analizzava diversi tipi di governo, tra cui la democrazia, e formulava una teoria fondamentale per la sua stabilità e per la protezione della libertà individuale: la separazione dei poteri. La democrazia, diceva Montesquieu, deve essere rappresentativa e non diretta, e deve evitare gli eccessi di spirito di eguaglianza e di diseguaglianza che possono portare a degenerazioni e a diverse forme di dispotismo.
L’immagine che offre Montesquieu è quello di un potere temperato, di una divisione che attraversa l’organizzazione dello Stato e cerca di assicurare una coesione sociale. Ebbene a tre secoli di distanza, questo potere democratico sembra in certe occasioni dimenticato.
È certamente vero che dai tempi di Montesquieu sono accadute tante cose da far tremare “il cielo e non solo la terra”. Tra guerre, rivoluzioni politiche e sociali, lotte di classe, cambiamenti epocali del modo di lavorare e mutamenti tecnologici impensabili, è stato difficile difendere e appoggiare il potere democratico. Ma Montesquieu indicava un metodo, che nei periodi di “tregua sociale, politica e bellica” ha funzionato.
Il potere temperato ha prodotto in alcuni periodi storici grandi conquiste sociali, un clima di coesistenza e di tolleranza.
Oggi invece ci troviamo in mezzo a uno dei periodi storici più travagliati per il mantenimento e lo sviluppo democratico. I motivi di questo tumulto risente di due grandi “illusioni”: l’affermazione nel Novecento del nazifascismo da un lato e del comunismo dall’altro. Le due tragiche illusioni, che sono fortunatamente crollate, sembravano la spiegazione più calzante dei pericoli previsti dal pensiero di Montesquieu e di quasi tutti gli illuministi: evitare gli eccessi di spirito di eguaglianza e di diseguaglianza, che rischiano sempre delle degenerazioni terribili.
Nel contesto storico in cui ci troviamo, purtroppo, queste illusioni hanno lasciato delle nostalgie con cui una nuova classe politica pensa, in un ambito formalmente ma non sostanzialmente democratico, di risolvere al più presto i problemi vecchi e nuovi che la storia ci presenta. Inoltre, lo stesso sviluppo democratico non può fermarsi ai risultati raggiunti, ma deve modellarsi ai nuovi problemi che sorgono.
Guardiamo un attimo le situazioni che si presentano nel mondo. Gli Stati Uniti eleggono un Presidente che pare un “giocatore di poker” e vuole imporre l’egemonia del suo Paese con una sorta di presunta superiorità geopolitica che non è più storicamente valida.
Nella “guerra dei dazi” non c’è solo l’idea di un Paese che teme di perdere la leadership mondiale, ma anche quella di abbandonare qualsiasi forma di cooperazione interstatale per imporre il proprio modello di democrazia. E tutto questo è fatto in modo intollerante, il contrario esatto del potere temperato, all’esterno e anche all’interno del suo Paese. Perché Donald Trump è costantemente in contrasto con il potere giudiziario americano, come dimostra anche l’ultima vicenda della Corte di New York che gli contesta la politica dei dazi? In Trump esiste una nostalgia di essere una “potenza democratica” per eccellenza che spesso ha sconfinato in forme di imperialismo.
Una nostalgia di tipo differente la sta vivendo Vladimir Putin. Il Presidente russo è una sorta di dittatore che crede ancora nella grande Russia di Caterina, nel ruolo imperiale dell’Urss, da Stalin a Breznev, sugli altri Paesi.
Tralasciando la nostalgia cronica dei Paesi autoritari, come la Cina e l’Iran, anche le democrazie europee oscillano tra aspirazioni di rinnovamento democratico, unita alla collaborazione e all’unità concreta, e la difesa di interessi particolari, nazionali, che compromettono la grande democrazia europea pensata dal 1945.
La grandezza del potere democratico, con la sua temperanza e uno spirito collaborativo, pur nelle posizioni differenti, è (lo ripetiamo) un metodo che ovviamente va riconsiderato con il passare del tempo, con i nuovi problemi che si presentano. Ma non va mai dimenticato il potere tollerante, la divisione dei poteri, l’organizzazione di una società che tende sempre alla coesione.
È questo in fondo il vero metodo della politica, che di fatto, anche se alcuni cercano di farla passare come scienza o tecnica, è sempre un’arte, un’arte del possibile, anche alla faccia della nuova tecnologia e dell’intelligenza artificiale. Quando la nuova classe politica mondiale riscoprirà questo fatto, uscirà dalle illusioni ideologiche, forse la democrazia sarà anche aggiornata, ma salvata e il potere democratico resterà l’unico metodo possibile per vivere secondo i principi di civiltà.
Perché, in un periodo come questo, non si apre un vero dibattito sul problema del potere?
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