Il congresso della Lega ha mostrato un asse molto stretto tra Salvini e Meloni sui dossier decisivi, dazi e regole europee

Chi sta soffrendo di più per le mosse di Trump che stanno squassando la politica mondiale? Maggioranza o opposizione? Se la coalizione di governo ha la responsabilità di definire la politica nazionale, chi è dall’altra parte della barricata si mostra ininfluente e non in grado di esprimere un’alternativa. E le piazze “contro” degli ultimi giorni ci mostrano una divaricazione praticamente insanabile sulla politica estera, Pd, Azione e +Europa da una parte, M5s e Avs dall’altra. Per il momento posizioni inconciliabili, e che non possono certo influenzare le scelte di fondo: le piazze contro sostanzialmente si annullano e vanificano ogni proposta politica.



L’onere delle scelte ricade, quindi, interamente sulle forze di governo, dove è innegabile che convivano sensibilità differenti. Resta da capire se le divergenze possono essere un problema, nel breve e medio periodo.

E qui bisogna ragionare partendo dalla constatazione che dopo il congresso nazionale della Lega, Salvini ne esce più forte di prima, con un partito che ha saputo ricompattare intorno alla sua segreteria, e la Meloni oggi è più vicina a lui e più lontana da Tajani.



I titoli sul ritorno del leader del Carroccio al Viminale non devono ingannare: è lo stesso Salvini il primo a sapere che la cosa non è per l’oggi, in un momento talmente delicato che qualunque ritocco alla squadra di governo potrebbe avere esiti imprevedibili. L’attuale ministro delle Infrastrutture si può accontentare di aver sottolineato che sono venute meno le ragioni che lo avevano costretto alla rinuncia, stoppando così gli appetiti di Forza Italia a un riequilibrio a proprio favore. Il che, politicamente, non è un risultato proprio trascurabile.

Assai più rilevante è notare la sostanziale sintonia fra i temi toccati da Giorgia Meloni nel suo videomessaggio e quelli cari alla platea leghista. Non solo ribadire che nel programma ci sono sia premierato che autonomia differenziata. Sul piano europeo c’è di più: lo stop al Green Deal sulle auto e al rigore del Patto di stabilità reclamati dalla Lega in questi giorni di congresso sono musica per le orecchie di Giorgia Meloni, ma un dito nell’occhio per Tajani e i suoi. Di fatto, anche il presidente di Confindustria Orsini si è schierato su posizioni simili: sostegno all’automotive, stop alla burocrazia europea, sì al nucleare subito.



FI si trova nella scomoda posizione di rappresentare in questa fase il megafono delle posizioni della Commissione europea, dalle quali però Meloni sta meditando di distanziarsi, da definire in quale misura. In fondo, tanto lei che Salvini si ritrovano nella posizione espressa a Cernobbio dal sempre prudente ministro Giorgetti: mettere in stand-by le regole di bilancio Ue. Al momento gli interessi italiani risultano distanti da quelli di Germania e Francia. Sui dazi, l’obiettivo di un’area euroamericana a tariffe zero, fatto trapelare sabato da Elon Musk al congresso della Lega, è un’apertura che dà ragione alla prudenza del governo italiano: bisogna trattare, nessuna risposta colpo su colpo all’offensiva tariffaria avviata da Trump.

Non a caso il Financial Times ha scritto che la posizione del governo italiano sarà decisiva per definire la risposta europea. Meloni può coagulare intorno a sé una minoranza di blocco (Ungheria, Grecia, Slovacchia, Repubblica Ceca), e quindi il pressing su Palazzo Chigi sale. La premier vorrebbe essere ricevuta al più presto alla Casa Bianca per verificare direttamente i margini di trattativa. Indigesta però le è risultata l’intenzione del vicepresidente JD Vance di venire a Roma nei giorni di Pasqua (arrivo previsto il 17 aprile). Di un contatto con il numero due la presidente del Consiglio non può accontentarsi, sarebbe una diminutio inaccettabile.

In fiduciosa attesa che dalla Casa Bianca arrivi il tanto sospirato via libera al colloquio con Trump, Meloni oggi riunisce la task force dei ministri economici, e poi dovrebbe vedere i due vicepremier in un vertice ristretto. È lì che si esamineranno  le prossime mosse, sia sul piano del sostegno alle imprese colpite dai dazi (martedì il vertice con le categorie), sia sul piano delle relazioni internazionali.

Sarà un passaggio importante per definire le prossime mosse dell’esecutivo, con la premier intenzionata a giocarsi la partita in prima persona. Con buona pace di un ministro degli Esteri che parla troppo con Bruxelles e troppo poco con Washington. Un problema ingombrante, ormai ben visibile a occhio nudo. I dazi di Trump hanno davvero rimescolato le carte.

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