La figlia dell'insigne matematico ne tratteggia la figura scientifica e umana, ricordandone l'impegno, condiviso dalla moglie, per la formazione dei giovani
Nel centenario della nascita di Giovanni Prodi (1925-2010), importante e influente matematico italiano, e nel primo anniversario della morte di Silvia Dentella (1930-2024), sua moglie, nell’intervista alla figlia Maria Prodi si ritrovano le tracce della loro collaborazione, in un comune impegno intellettuale, civile e morale. Nella serrata e interessante conversazione emergono vivamente due figure di grande umanità e statura intellettuale. Qui le biografie di Giovanni Prodi e di Silvia Dentella Prodi.
Nell’intervista fatta da Salvatore Coen a Giovanni Prodi, veniamo a conoscere l’origine dell’attrazione di Giovanni verso la matematica. Secondo te, come si è formata l’apertura al sociale di Giovanni e Silvia?
Per scrivere queste righe, come a suo tempo per la relazione di Orvieto, ci siamo confrontati fra fratelli (Francesco, Enrico, Luisa e Sergio). Questi ricordi comuni ci sono molto cari.
Abbiamo le minute, scritte da nostro padre, degli incontri che Giuseppe Dossetti teneva con un gruppo di giovani di Reggio Emilia. L’idea che la fede fecondasse anche l’impegno nella politica e nella società in quelle riflessioni era centrale e arrivava dopo lunghi anni in cui, all’interno della Chiesa, si era dovuto tacere su questi temi. Come scriveva mio padre, a proposito della sua formazione nell’Azione Cattolica: «Non ci venivano trasmessi messaggi di tipo sociale o politico, dal momento che il fascismo pretendeva il monopolio assoluto in quei settori: questa carenza di formazione rese difficile e angoscioso il prendere certe decisioni di carattere strettamente politico durante il fascismo e nel primo dopoguerra. In compenso ci erano stati dati dei principi molto saldi di morale individuale e interpersonale».
Nostra madre invece si era formata a Milano, nel gruppo fondato e animato da Giancarlo Brasca, che poi anche nostro padre frequentò, centrato certamente sulla dimensione della formazione cristiana, ma anche impegnato nella solidarietà con le persone in difficoltà. Frequentavano le case minime aiutando i ragazzini nei compiti, sostenendo le famiglie. Alcune amicizie nate con le persone incontrate là sono durate per tutta la vita dei nostri genitori.
Credo che l’apertura al sociale di papà e mamma sia stata dovuta a un senso di giustizia (restituire qualcosa del tanto che si è ricevuto) e di carità cristiana alimentata dalla fede. Papà e mamma hanno ricevuto tanto dalla vita (salute, istruzione, famiglia, lavoro…) e hanno cercato di dare altrettanto. Ricordo un assiduo (a quei tempi ci sembrava anche un po’ eccessivo) coinvolgimento della mamma nell’organizzazione di liste e riunioni in ambito dei decreti delegati: la sua energia e tenacia finirono per contagiare all’impegno nei nuovi organi collegiali molti altri genitori. Partecipare al miglioramento della scuola anche come genitori era una novità che richiedeva capacità di aggregare, proporre, coinvolgere: doti che la mamma possedeva certamente.
Come ha influito sulla formazione personale di Giovanni l’esperienza della guerra?
Spesso ho riflettuto sulla protezione accudente che le famiglie attuali hanno nei confronti dei figli, anche oltre quei 19 anni che nostro padre compì in Germania, arruolato senza possibilità di opporsi (otto fratelli più piccoli di lui avrebbero avuto pesanti ripercussioni se si fosse rifiutato scappando in montagna). Ci ha raccontato ogni tanto, con pudore, della fame perenne, e dell’incoscienza con cui tifavano, lui e parecchi dei suoi compagni, per la sconfitta dei tedeschi: «Eccettuati pochi volontari, eravamo tutti “disfattisti”; nella grande carta geografica d’Europa che era stesa nel refettorio mettevamo le bandierine sulle città conquistate dagli alleati». Viene poi a trovarsi nella compagnia dei telegrafisti, occupati a riparare linee telefoniche, in alta Lunigiana, quando durante un bombardamento, che interrompe la preparazione dell’esecuzione di un compagno, accusato di contatti con i partigiani, riesce a fuggire. Scappando si sbarazza del fucile, poi conscio degli enormi rischi che sta correndo se ne procura un altro, che finisce anche quello buttato in un torrente. Consegnatosi ai partigiani viene portato nel campo di detenzione di Coltano dove avvengono due maturazioni decisive per il suo futuro: pur senza libri e maestri lavora intorno alle poche nozioni matematiche che ha ricevuto, e con qualche libro di spiritualità che circola e le messe quotidiane scopre la sua fede adulta.
Credo che queste vicissitudini abbiano contribuito a creare in lui un profondo bisogno di giustizia e la chiamata a doversi spendere, lui attratto così tanto dai suoi studi, anche nelle vicende politiche e di costruzione del bene comune. La assoluta casualità con cui la sua ricerca di salvezza in quei frangenti si rovesciò in rischi di morte, e il modo invece in cui i momenti di terrore si ribaltarono in imprevedibili scampati pericoli, i rovesciamenti sociali e politici a cui aveva assistito, contribuirono a un senso vivido della provvidenza e della misteriosità delle vie di Dio, che comunque non esonerano dalla operosità umana.
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a cura di Maria Pierina Manara
