La Fondazione svizzera Pro Juventute ha svolto un’indagine sulla salute dei giovani elvetici ricca di indicazioni anche per la scuola italiana
Uno studio condotto da Pro Juventute (la più grande fondazione svizzera per il sostegno di bambini e giovani), in collaborazione con il Dipartimento di psichiatria e psicoterapia infantile e dell’adolescenza della Clinica psichiatrica universitaria di Zurigo e dell’Università di Losanna, ha voluto indagare sulla salute dei giovani in Svizzera, offrendo dati che riflettono una situazione diffusa anche oltre i confini nazionali.
In esso si rileva che “tra i fattori che contribuiscono maggiormente allo stress percepito, rientrano lo stress per la scuola e la formazione con verifiche ed esami, la pressione generale da prestazione, la preoccupazione di non avere sufficiente denaro, il confronto con richieste elevate nonché le preoccupazioni legate al futuro professionale”.
Questi dati confermano il quadro problematico che abbiamo sotto gli occhi, caratterizzato da paure, depressione e ansia. Un’ansia diffusa e permanente che fa male alla salute, ma inevitabilmente incide negativamente sul gusto per il sapere, sulla ricerca di senso, sulla conoscenza della cultura come necessità esistenziale (basti pensare al rapporto tra ansia e capacità di attenzione).
Il responsabile regionale di Pro Juventute per la Svizzera italiana osserva che siamo noi adulti a trasmettere queste pressioni psicologiche, di cui noi stessi per altro siamo vittime. È un’opinione che condivido e che purtroppo non sembra schiudere né un pensiero alternativo, né un’operatività educativa idealmente coerente.
Lo stesso dirigente formula una questione radicale: “A noi adulti piace il mondo che stiamo ‘offrendo’ ai bambini e ai giovani?”. È giusto che siano i genitori a porsi questa domanda, i quali, tuttavia, se lasciati da soli, ne trarranno solo un motivo ulteriore di inadeguatezza e di ansia. Ma questa domanda dovrebbe porsela anche la scuola e dovrebbero porsela gli insegnanti, loro stessi sottoposti alle pressioni dell’impostazione pedagogica oggi egemone.
Questa tendenza ripone nelle competenze la risposta alla diffusa precarietà socio-affettiva-esistenziale, aggravando, di fatto, il problema invece di risolverlo. Un pedagogismo ossessionato dalle competenze, dalle valutazioni analitiche e dall’applicazione di modelli pedagogico-didattici illude insegnanti e allievi. Esso trasmette l’idea che i problemi siano risolvibile sul piano tecnico, puntando tutto sull’eliminazione delle fragilità e sul potenziamento delle prestazioni, facendo dell’educazione una scienza applicativa.
La scuola della prestazione si nutre, possiamo dire usando un’espressione del filosofo Byung-Chul Han, di un “eccesso di positività” che non tollera l’essere da meno. Lo stesso concetto di inclusione rimanda a una omologazione che pretende di annullare ogni distanza. L’“indisponibilità dell’altro”, quella differenza irriducibile che ci impedisce di appropriarci dell’altro, è oggi ritenuta insopportabile. Il divario e il limite sono motivi di frustrazione e bisogna eliminarli, come errori insostenibili.
Il messaggio che giustifica l’impostazione per competenze della scuola è trasmesso più o meno direttamente attraverso domande che prevedono risposte uniche e ovvie. Potremmo formularle in questo modo: “come si fa a vivere senza essere creativi? e senza essere tecnologici, e senza conoscere il pensiero critico? e senza capacità collaborative? e senza sapere l’inglese?”.
Intendiamoci bene, sapere l’inglese o essere un abile problem solver può essere utile, ma se queste competenze diventano obiettivi da raggiungere attraverso un esercizio volto ancora una volta alla prestazione, è inevitabile che l’ansia per il risultato abbia il sopravvento. La scuola finisce per ridursi a un laboratorio in cui, prima di ogni attenzione al proprio essere e al mondo, prevale la volontà di riuscita individuale e la inevitabile competizione. La devastante sensazione di frustrazione che, al di là delle apparenze, blocca ogni autentico slancio vitale ne è la conseguenza.
Forse bisogna ripensare il compito di educatori e insegnanti: non facilitatori o trainer, ma testimoni di un’esperienza di conoscenza della realtà e perciò maestri che, nell’incontro rispettoso con l’altro, sappiano comunicare una prospettiva interessante per gli allievi.
Dobbiamo porci la domanda: noi insegnanti crediamo di più a quello che una certa mentalità chiede ai nostri allievi o crediamo di più a un’esperienza di conoscenza, di condivisione, di gusto per le cose che noi stessi abbiamo imparato e che rilancia continuamente la nostra ricerca di senso?
Riprendo e parafraso un invito che il responsabile di Pro Juventute rivolge ai genitori, commentando lo studio citato, e lo estendo agli insegnanti: “fidatevi di più di quello che siete; fidatevi di quello che sapete fare, di ciò in cui credete e che giorno per giorno giudicate dentro la vostra viva esperienza umana e trasmettetelo ai vostri allievi. E se pensate di aver poco da dire o vi sentite sopraffatti dalle circostanze rimanete attaccati alle piccole intuizioni, verificandole e sviluppandole soprattutto nel dialogo con colleghi, allievi e famiglie e anche chiamando in causa la politica, e state attaccati alla grande cultura che attesta ciò che vale oltre il tempo ordinario e provvisorio”.
I nostri allievi si appassionano allo studio, al gusto per la conoscenza se noi trasmettiamo anzitutto questa passione e questo gusto e se i nostri allievi possono vedere che noi non ci concepiamo da soli ma in una trama di rapporti umani e professionali. Dobbiamo crederci.
Nella mia esperienza scolastica sono sempre sorpreso nel vedere come tutte le circostanze possano essere vissute come apertura alla realtà con cui siamo sempre in relazione e che continuamente provoca il nostro desiderio di comprensione: in questo modo sono nate le scienze (pratiche e speculative), la letteratura, le arti e i mestieri. La realtà non è carente, tuttavia, anche nella scuola, costatiamo una perdita di attrazione verso di essa, favorita dalla chiusura nella bolla digitale e nel mondo della tecnica.
Ci si allontana dalla realtà, quella vera, per far posto a quella ridotta al prodotto delle nostre prestazioni, sempre irraggiungibile e perciò angosciante. In ogni circostanza si può guardare avanti, si può guardare al possibile come a ciò che rivela la promessa di bene contenuta nella realtà, anche in situazioni non facili. Il metodo è molto semplice: stare alla realtà.
L’insegnante che guarda la realtà lasciandosi sorprendere da essa e volendo condividere con i suoi allievi la sua esperienza di conoscenza e di significato crea uno spazio di apertura fiduciosa al mondo. Nella relazione con un maestro si alimenta l’interesse per le cose e per l’altro. L’accompagnamento educativo forma allievi e allieve intraprendenti, secondo le loro condizioni. La fatica e le difficoltà non sono cancellate, ma su di esse prevale il desiderio di scoprire che cosa ci attende.
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