I sindacati che hanno indetto lo sciopero dello scorso 30 maggio, e con essi i docenti che vi hanno aderito, hanno contestato la formazione obbligatoria alla quale fa riferimento l’Atto di indirizzo del governo, propedeutico alla revisione del contratto scuola. La formazione obbligatoria, sulla quale vale la pena discutere, è un nodo dirimente tra un’ottica contrattuale del lavoro del docente e un’ottica professionale. L’obbligatorietà non nasce ieri, ma con la legge 107 del 2015 (Buona Scuola) che istituiva l’organico dell’autonomia, rendendo cioè il docente in qualche modo dipendente non tanto dal Miur ma dalla singola istituzione scolastica.
Il comma 124 della suddetta legge, a questo fine recitava che “la formazione in servizio dei docenti di ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale. Le attività di formazione sono definite dalle singole istituzioni scolastiche in coerenza con il piano triennale dell’offerta formativa, ecc.”.
I termini “obbligatoria, permanente e strutturale” sono pesanti. Devono tuttavia essere messi in relazione, pare di capire, alla finalità del miglioramento delle istituzioni scolastiche del sistema pubblico nazionale (statale e non statale). Il legislatore ragionava all’incirca in questo modo: l’insegnante ha come scopo la crescita dell’alunno, pertanto “deve” tenersi aggiornato. Vale tuttavia una regola, a proposito di ministero ed enti a esso connessi: una qualunque apertura di tipo liberale deve essere contrastata da una massiccia dose di statalismo centralistico.
Ecco che quindi, dopo avere definito gli scopi della formazione obbligatoria, il Miur dettagliava minutamente con il Piano per la formazione dei docenti 2016-2019 i settori sui quali esercitare tale obbligo: la didattica per competenze, le competenze digitali, la lingua straniera, la prevenzione del disagio giovanile, ecc. Ma non erano le autonomie scolastiche deputate a elaborare il suddetto piano? La logica del gambero domina ovunque.
Torniamo dunque ai contratti dei docenti (stipulati triennalmente tra sindacati, scuola e Aran) che circoscrivono una serie di norme entro le quali il docente è tenuto a muoversi, in qualche modo confliggenti con la logica finalistica che abbiamo visto prevalere nella 107/2015. Il contratto scuola infatti (l’ultimo è quello del 2016-2018 firmato il 19 aprile 2018; il prossimo sarà partorito dal tavolo ministeriale tuttora in corso) definisce il lavoro del docente (art. 26) come “funzione docente (che) si fonda sull’autonomia culturale e professionale dei docenti; essa si esplica nelle attività individuali e collegiali e nella partecipazione alle attività di aggiornamento e formazione in servizio”. Per utilizzare il pressappoco di cui sopra, qui sembra prevalere (pressappoco) la seguente filosofia: quello del docente è un servizio che si costruisce su se stesso, che la categoria fonda sulla propria autonomia. La logica contrattuale ha appiattito il lavoro docente su una “funzione” statale, come funzioni statali sono l’esattore delle poste o il centralinista di un qualunque ministero. Se risponde, bene; se non risponde, l’utente è in braghe di tela.
Non siamo così ingenui da attribuire al governo che ha messo mano alla partita della revisione del contratto soluzioni di tipo salvifico. Niente affatto. Tuttavia è chiaro che la formazione obbligatoria sta al contratto come il diavolo alla famosa acqua santa. Forse è il contrario, ma il risultato non cambia: l’obbligatorietà non esiste là dove periodicamente si contrattano funzioni, competenze, diritti (perché no), doveri (sempre meno).
Quanto alla obbligatorietà per legge, difesa dai (pochi) eredi della Buona Scuola, sarebbe il caso che apertamente si pronunciasse una parola sul fatto che se obbligatoria deve essere, ciò non significa uguale per tutti. Ma appunto diversificata al suo interno per opzioni culturali e ambiti di riferimento (statali/non statali). Vedremo come se ne uscirà. Resta che i docenti che si sono formati sul campo in questi ultimi due anni in interventi educativi di emergenza sono un esempio di lavoratori a cui non importa tanto del contratto, importa vivere al cospetto del mondo la loro vocazione. Se venissero anche sostenuti economicamente, non sarebbe male!
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