L'ansia da prestazione di cui soffrono adolescenti e giovani è il frutto malato di una ideologia della performance. La scuola deve liberasene

È stata a lungo considerata una devianza del mondo del lavoro, di adulti immaturi incapaci di dare il giusto peso al successo e all’insuccesso, poi ci si è accorti che non è soltanto così, che il problema è molto più diffuso, più vicino e che ormai riguarda tutti, ma è difficile ammettere che abbia messo radici proprio nella nostra casa, nella nostra scuola, nella nostra famiglia. È la cultura della performance, un paradigma che identifica il valore dell’individuo anzitutto con i suoi risultati misurabili e che caratterizza in modo marcato la contemporaneità, cioè il nostro tempo e la nostra società.



Da più parti i ragazzi lamentano quanto l’attuale cultura della prestazione possa essere riduttiva e dolorosa. Ma è impossibile capire la sofferenza psicologica che i nuovi adolescenti si portano addosso senza collocarli all’interno di un’epoca che questa sofferenza in qualche modo produce.

Diventa allora decisivo capire quali danni produce su di loro la mortifera concezione del successo di cui stiamo parlando, perché solo così si potrà poi passare a formulare una sana proposta educativa, didattica, culturale, psicologica, capace di contrastare la deriva narcisistica (nostra e loro).



L’epoca delle passioni tristi produce un malessere che, pur avendo manifestazioni psicologiche, affonda le sue radici in una dimensione esistenziale. La richiesta implicita ed esplicita di essere perfetti – studenti perfetti, figli perfetti, e, per estensione, genitori perfetti – diviene un fardello insostenibile. I giovani si trovano a dover essere pronti per il mondo, performanti e impeccabili. L’episodio delittuoso di Paderno Dugnano, con la descrizione del giovane omicida da parte di conoscenti e, fatto più inquietante, anche di alcuni insegnanti, come “perfetto”, funge da tragico paradigma.



Questa definizione – non “era un bravo ragazzo”, non “era un buon ragazzo”, ma “era un ragazzo perfetto” – è particolarmente allarmante perché solitamente casi simili sono il prodotto del disadattamento sociale. La perfezione attribuita al ragazzo maschera, in questo caso, una profonda incapacità del contesto di cogliere segnali di disagio. La tragedia di Paderno, pur nella sua anomalia, dipinge in tinte veramente fosche, ma definite, quello che stiamo attraversando, cioè la richiesta della perfezione.

La tendenza a interpretare, poi, ogni disagio giovanile unicamente attraverso lenti psicologiche rischia di eludere la portata esistenziale della sofferenza, confondendo il piano esistenziale con quello psicologico e depotenziando la capacità di risposta della comunità educante. Il malessere dei giovani – la loro tristezza, ansia, agitazione – è primariamente una domanda di senso, una manifestazione del loro stare-male-nel-mondo che deve interpellare l’adulto. Ridurlo a un problema meramente psicologico è un modo per eludere il disagio dei ragazzi.

La cultura aziendale e capitalistica ha progressivamente sostituito l’idea di un impegno condiviso con una mission imperativa, apparentemente più allettante, cioè quella di essere sé stessi. Tale ingiunzione, tuttavia, si rivela spesso ingannevole. La performance individuale, anziché autentica espressione di sé, rischia di diventare funzionale alle esigenze del mercato.

In questo quadro, la ricerca di notorietà, amplificata dai social media – “io esisto se appaio, io sono quello che appaio” – diventa un’ulteriore pressione che schiaccia i giovani, alimentando ansia e fenomeni come il cyberbullismo. Pur di essere noti, si è disposti a ingannare le apparenze, a cambiare sembianze. La fuga nel virtuale testimonia il timore di non essere adeguati alle aspettative reali.

Questo si collega strettamente alle analisi di Jonathan Haidt in La generazione ansiosa, riguardo all’impatto pervasivo del mondo digitale sulla salute mentale dei giovani, che li espone a un confronto sociale costante e a standard irrealistici. La spaccatura tra virtualità e realtà è un tema centrale: come in Matrix dobbiamo scegliere fra la pillola rossa e la pillola blu?

Studenti universitari (Ansa)

Una proposta educativa che ponga al centro la relazione, il legame e la possibilità di dare spazio al desiderio autentico, si configura come intrinsecamente disadattante rispetto alle logiche di consumo e di mercato. Tale apparente disadattamento, tuttavia, può abilitare a una vita più piena e significativa. La scuola, in particolare quella che non si asservisce completamente alle logiche del consumo e alle logiche del successo, cioè dell’essere performanti – è il caso di quelle scuole paritarie che mantengono una loro identità: a titolo di esempio valga l’Istituto paritario Tirinnanzi che quest’anno ha usato come claim la frase: “La scuola è qualcuno che ti chiama per nome” –, di fatto è disadattante, è disabilitante.

È un luogo di sana disabilitazione dalle pressioni omologanti, ma che, allo stesso tempo, abilita alla vita, coltivando l’intelligenza emotiva e la capacità relazionale (che poi è ciò che serve anche nel mondo del lavoro e rende più produttivi, paradossalmente, di coloro che inseguono la performance). L’incontro con l’altro è fondamentale per la definizione identitaria. Per capire chi sono ho bisogno di relazioni. L’altro rappresenta un limite che, se affrontato costruttivamente, permette di contenere il delirio di onnipotenza tipicamente adolescenziale e di comprendere la propria unicità.

L’ansia, emozione prevalente tra i giovani, è intrinsecamente legata alla prestazione e in questi anni abbiamo a che fare – e questo è un dato nuovo e veramente drammatico – con un aumento esponenziale, tra gli adolescenti, dei tentativi di suicidio. In particolare, è aumentata tantissimo la loro percentuale nella popolazione femminile, nel cluster 11-18 anni. Questo deve farci pensare anche rispetto al modo in cui le nostre ragazze vivono la diffusa e continua insistenza sull’aspetto, sulla bellezza, sull’essere precise, sull’essere performanti.

Diventa così sempre più fondamentale promuovere un “elogio del fallimento”, riconoscendone il potenziale di apprendimento. Noi impariamo dall’errore, senza l’errore non c’è apprendimento. Invece, ci ostiniamo a educare i ragazzi al successo e all’essere ottimi, mentre ciò che li rende forti è la capacità di sostenere il fallimento.

La paura dell’errore non produce nulla, se non la paura della paura. Di fronte al fallimento di molte agenzie educative tradizionali e alla debolezza strutturale di alcune famiglie, la scuola assume una responsabilità cruciale nell’offrire ai ragazzi opportunità per costruire la propria identità, per rispondere alla domanda: “Chi sono io?”. L’identità si forma anche attraverso l’imitazione, l’emulazione e la dipendenza da adulti consapevoli e capaci di proposta, nonché attraverso il rapporto con i pari. La scuola può e deve diventare una “clinica dei legami”, un luogo dove sperimentare relazioni sane e generative.

L’insistenza e la pressione genitoriale sulla prestazione nasce dall’interpretare il proprio ruolo unicamente in chiave securitaria: il genitore fa pressione perché deve creare le condizioni migliori per il benessere dei propri figli e tende a proiettare sui figli aspettative di successo conformi ai canoni del mondo, desidera che i figli trovino un buon lavoro, che “si sistemino”. Sembra invece non essere interessato alla domanda di relazioni umanamente significative o al fatto che i figli siano semplicemente curiosi. Si crea perciò spesso una spaccatura apparentemente insanabile tra la proposta culturale della scuola e quella delle famiglie. Attualmente non possiamo parlare di alleanza ma, quando va bene, di rispetto o di asettica tolleranza!

La sfida attuale consiste nel passare da una “scuola buona”, intesa come connivente con le logiche performative e selettiva, a una “buona scuola”, capace di promuovere il benessere integrale della persona. Ciò richiede un impegno collettivo per costruire una “clinica dei legami” in cui docenti, famiglie e studenti collaborino per un fine comune.

La responsabilità di cogliere i segnali di disagio (che è esistenziale prima che psicologico) e di intervenire in modo appropriato è grande, ma può essere sostenuta all’interno di una collegialità vissuta, che trasformi il peso della responsabilità in cura e affetto. Dentro una collegialità questa responsabilità si può portare senza che diventi il macigno di una nuova performance, in questo caso degli adulti, dei docenti.

La vera generatività risiede nel riconoscere che tu non sei, semplicemente, chi sei. Tu sei ciò che fai, intendendo il fare come il modo in cui si interpreta il mondo, si sta al mondo e si stabiliscono relazioni significative. Tu sei le relazioni che hai, i rapporti che hai e quindi tu sei ciò che fai in qualche modo per l’altro. La relazione educativa si gioca sempre nel rapporto fra libertà, responsabilità e rischio.

Che fare? Questa è la domanda che resta aperta. Comunque sia, la risposta è certamente da rintracciare attraverso nuove modalità di relazione fra ragazzi e insegnanti, tra insegnanti e famiglie riaffermando il valore fondamentale dell’Altro non come limite o minaccia, ma come possibilità di crescita e umanizzazione. Il compito che attende noi adulti è di consegnare un mondo che i nostri giovani accettino in eredità di cui si faranno loro volta promotori e costruttori.

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