La ripresa delle scuole e l’inizio dell’anno accademico ripropongono, tra le altre problematiche, l’uso buono (e quello pervasivo) della tecnologia. Tecnologia pervasiva: è inutile fare i compiti a casa (o in classe) se sappiamo dove fare copia e incolla su internet; è inutile ascoltare e partecipare in classe, quando posso ritrovare tutto in sintesi su Youtube. Ma anche tecnologia buona per aiutare chi ha abilità differenti, chi cerca davvero approfondimenti.
La Svezia pare abbia iniziato a imparare la lezione e sta vietando nelle scuole l’uso di tecnologia digitale nei bambini perlomeno fino a 6 anni, ma la fa usare nelle lezioni laddove occorre. È già qualcosa, ma non abbastanza. Con la ripresa degli anni scolastici e accademici gli educatori di qualunque grado ripensino il loro rapporto con studenti e tecnologia dopo anni passati in Dad (didattica a distanza). L’insegnamento è fornire nozioni imbellettate da alta tecnologia o comunicare entusiasmo per la materia? Sembrava che il digitale e il virtuale fossero “il sole dell’avvenire” e quindi ci si dovesse affidare ad essi per ogni esigenza e tutto quello che è digitale appare per incanto buono. Youtube sostituisce il professore, e la rete dà tutte le soluzioni, basta che siano misurabili e computabili. Poi, si è capito che i limiti ci sono e sono involutivi e gravi.
Il problema è lì: quello che serve è solo ciò che è computabile e misurabile; del resto, parafrasando Wittgenstein, “non si deve parlare”. E la tecnologia è meravigliosamente computabile e misurabile. Gunther Anders diceva che ormai l’uomo diventa invidioso della tecnologia così bella, fredda, insensibile, instancabile, tanto da sentirsi in colpa per non essere all’altezza di un calcolatore o di un robot. E Martin Heidegger spiegava l’arrivo di un mondo numerico, in cui solo quello che è misurabile ha cittadinanza: non sembra anche a voi che contino più i risultati numerici che quello che si impara? Che conti più quanto programma si è svolto che la passione che si comunica?
La bellezza sembra estromessa dal rapporto di insegnamento. Sembra tutto ridotto a offerta e richiesta, dove l’offerta per essere buona basta sia formalmente impacchettata con tanta tecnologia. “Dalla formazione dei docenti viene gradatamente espunta la lezione in presenza, con un relatore di livello a cui porre domande pratiche (anziché rispondere solo a test preconfezionati), molti dirigenti scolastici comunicano solo attraverso circolari (se ne contano oltre 300 l’anno – più del ministero) alle riunioni via Zoom senza interlocuzione” scrive Francesco Provinciali. E aggiunge: “succede così che nella scuola la gente non si parla più ‘de visu’, solo contatti domanda-risposta come succedeva al cane di Pavlov”. E le cose non misurabili spariscono: le lingue classiche, le arti, la capacità di scrivere, leggere un libro.
Proponevamo di recente di vedere il lavoro culturale alla luce del bello; ma non del bello-che-porta-turisti, ma del bello che si apprende dalla passione di chi insegna e che rimbalza sul volto di chi ascolta. Dove la tecnologia è un supporto della motivazione, non il contrario. L’utile non è il solo fine dell’insegnamento. Anzi, probabilmente parte dell’insegnamento va dedicato all’inutile. Va dedicato a ciò che apparentemente è inutile, che viene giudicato come inutile. Perché scuola e università non sono luoghi di addestramento per efficienti operai o manager (come sembra emergere da certo modello anglosassone) ma luoghi di sviluppo mentale, critico, conoscitivo e solidale. La tecnologia nell’insegnamento può far molto per questo, può mostrare il bello (e non distrarre da esso), può aprire ai sogni (e non far valutare quello che si studia sulla base del futuro stipendio). Chi sa apprezzare il bello e sognare saprà costruire un modo bello; altrimenti rassegniamoci (e non lamentiamoci poi!) ad ancora più inquinamento, più guerre, più muri.
Per questo chi scrive, insieme alla sociologa Laura Corradi, ha proposto una lettera al mondo culturale, che così si conclude: “vogliamo continuare ad essere testimoni dei nostri saperi collettivi e delle nostre esperienze. La scienza e la tecnica non sono tutto: vogliamo esprimere stupore di fronte all’inspiegabile della bellezza, che è armonia tra noi umani e la natura di cui siamo parte”. Chiediamo a chi lavora nel mondo della scuola e della salute, nella cultura e nella comunicazione di riflettere su questo. Non c’è bisogno del nostro invito, certo, ma serve trovare un coagulatore di queste riflessioni. Abbiamo proposto questa lettera e proponiamo di sottoscrivere questo appello (può essere interessante leggerlo) in vista di un simposio nazionale per aprire un dialogo su questi temi così vitali.
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