Lo sciopero (illegittimo) organizzato da Cgil-Usb-Cub-Cobas ha visto in piazza tanti studenti. La scuola deve rassegnarsi alla sconfitta e ai social?
Rispetto alle motivazioni che hanno spinto decine di migliaia di studenti in piazza, è possibile un dialogo e un confronto? L’esperienza mi dice di no, anche se vale sempre la pena tentare. Da diverse chat di studenti e docenti ho compreso meglio le ragioni della protesta. Alcuni ragazzi dicevano: “La storia ci ha insegnato che le proteste sono necessarie: non è solo resistenza, servono a mettere pressione ai governi e concretamente hanno sempre funzionato”; oppure: “I governi non stanno mettendo in atto la volontà del popolo e, quando il popolo non si sente rappresentato, è suo diritto protestare”.
Il popolo non rappresentato e la protesta (o lo sciopero) sono cose già viste nella storia, che però non hanno nulla a che fare con la tragedia che si sta vivendo in Palestina.
Ricordare a queste persone che nei Paesi occidentali esiste una democrazia rappresentativa, in cui il governo viene eletto attraverso libere elezioni – a differenza di molti Paesi arabi in cui vige una legge religiosa liberticida – non serve a nulla.
Lo dimostrano le violenze ma anche i cori e i cartelli visti in piazza: “Mamma mia mi ha insegnato le buone maniere: 1) vestiti bene 2) sputa su Israele”, oppure il noto motto “From the River to the Sea, Palestine will be free”, che non esprime la volontà di costruire due popoli e due Stati in pace, ma semplicemente di eliminare la presenza di Israele.
Il punto vero è che l’esaltazione della piazza (spesso strumentalizzata dalla politica per interessi di parte) mostra il fallimento della scuola. Moltissimi ragazzi non sanno neppure cosa dicono o scrivono, come dimostrano i tanti video sui social che ridicolizzano i manifestanti con semplici domande sulla situazione.
Il vero problema è che molti non conoscono neanche la differenza tra israeliano, sionista ed ebreo, finendo per generalizzare un unico colpevole. Eppure, un colpevole politico esiste – il governo israeliano –, ma confondere i piani rischia di alimentare l’antisemitismo, riportandoci in modo silenzioso e strisciante verso un drammatico passato, come dimostrano alcuni fatti di cronaca recente.
Tutto diventa così l’ennesima rissa tra fazioni politiche opposte, senza entrare nei contenuti e senza cercare soluzioni realistiche al problema.
Se c’è una certezza, è che ormai i social sono i nuovi insegnanti di vita dei giovani, mentre gli adulti che vi si affacciano lo fanno solo con una logica di polarizzazione, schierandosi contro qualcuno o qualcosa. Nel frattempo, la scuola fallisce sempre di più come luogo di dialogo e di confronto anche tra opinioni diverse.
Una strada di lavoro per la pace l’ha indicata Papa Leone XIV, nel suo intervento di giugno alla Conferenza episcopale italiana, quando ha detto: “Il Signore, infatti, ci invia nel mondo a portare il suo stesso dono: ‘La pace sia con voi!’, e a diventarne artigiani nei luoghi della vita quotidiana. Penso alle parrocchie, ai quartieri, alle aree interne del Paese, alle periferie urbane ed esistenziali. Lì dove le relazioni umane e sociali si fanno difficili e il conflitto prende forma, magari in modo sottile, deve farsi visibile una Chiesa capace di riconciliazione”.
E ancora: “La pace non è un’utopia spirituale: è una via umile, fatta di gesti quotidiani, che intreccia pazienza e coraggio, ascolto e azione. E che chiede oggi, più che mai, la nostra presenza vigile e generativa”.
Direi che è troppo facile andare in piazza a protestare contro qualcuno. Abbiamo invece la grande responsabilità di portare la pace nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo – come la scuola – attraverso gesti quotidiani di ascolto e di dialogo, non con gesti eclatanti. Costruire la pace vuol dire soprattutto questo in luoghi come la scuola, per non soccombere alle ideologie di turno.
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