Siamo in guerra, di fatto. Una guerra che stiamo combattendo su più fronti: se non su quello diretto militare (indiretto sì), sicuramente su quello economico e – aggiungiamo – culturale. Perché la guerra, così come la violenza gratuita, è solo un fatto umano. L’animale attacca solo se a propria volta attaccato, in caso di pericolo o per necessità; e si limita a questo, non va in guerra, non arriva a violentare il suo simile. Come ben analizzato da Eric Fromm nel suo saggio Anatomia della distruttività umana, l’aggressività umana ha come sua radice l’insoddisfazione di quei bisogni “culturali” di riconoscimento da parte dell’altro e di amore che nell’essere umano sopravanzano, penetrano e sono più forti di quelli cosiddetti primari, fisici e materiali. La violenza ultimamente nasce dalla mancanza di realizzazione di sé: per affermare il mio io, schiaccio l’altro. È la logica servo/padrone, ossia del padrone che in realtà è servo, perché non compiutamente sé stesso, non autonomo e realizzato.
Se ciò è vero, se al netto e intrecciata a tutte le ragioni economiche e geopolitiche, la guerra è un fatto culturale, che affonda le radici anche, se non soprattutto, nelle frustrazioni di un popolo e di un uomo in cui il popolo si riconosce o che comunque non misconosce (Putin, così come un tempo Hitler), che ruolo potrebbe e dovrebbe giocare allora l’istituzione che per sua natura contribuisce a generare e trasmettere cultura, ossia la scuola?
Nei primi giorni del conflitto i media ci hanno messo sotto gli occhi la violenza cieca che distrugge case, città, uomini e bambini innocenti, accompagnata dall’altrettanto brutale violenza che vuole imporre la sua interpretazione della realtà dei fatti, capovolgendoli, attribuendo loro il nome: non guerra, ma “operazione speciale”, non aggressione, ma “liberazione”, e via dicendo. Il fatto è, purtroppo, che tutto ciò si innesta su dinamiche cui siamo assuefatti. Siamo immersi nell’humus del relativismo e della dittatura delle emozioni, che ci rende deboli, privi di carattere e spina dorsale nel leggere e giudicare le cose.
Di questa nostra debolezza la logica e la pratica brutale del potere (di ogni potere) sono ben consapevoli e nel nostro ventre molle intendono affondare la spada. Da qualche anno abbiamo cominciato a prendere consapevolezza di quel “potere tagliente” (sharp power) che con l’uso della manipolazione algoritmica e di forme persuasive di risorse cyber lacera il tessuto della società, instillando disinformazione e messaggi d’odio o attrattivi mirati. Un potere che Stati autoritari come Russia e Cina utilizzano nei confronti dei Paesi democratici, sfruttando la loro debolezza; un potere cui comunque noi siamo sottoposti quotidianamente attraverso quel bombardamento di informazioni filtrate, selezionate con algoritmi e rese disponibili on line, allo scopo di manipolare la realtà percepita e di orientare le nostre scelte in campo economico o politico.
Fino a ieri i media non mettevano più in prima pagina la guerra europea in Ucraina, modificando così la nostra percezione della sua gravità e di come siamo fortemente implicati in essa. Ne scopriamo di nuovo l’impatto e saremo costretti a modificare i nostri assetti economico-sociali. Ma per la scuola, che cosa si ipotizza?
Non mi pare che ci sia una seppur minima percezione dell’urgenza di un profondo cambio di rotta del nostro sistema scolastico, nella direzione di una vera educazione all’uso della ragione, della formazione del carattere e quindi dell’autonomia della persona. Perché guardando avanti questa è la vera emergenza, per il futuro dei nostri giovani e quindi del nostro Paese. Tutte le proposte delle forze politiche vertono (e al più divergono) sul come garantire organizzativamente e metodologicamente il trasferimento e l’acquisizione dei saperi e delle competenze, senza porsi il problema di un ripensamento del sistema stesso a livello di assetto, in rapporto a quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria: facilitare un’educazione alla libertà, un effettivo contrasto alla manipolazione e al depotenziamento dell’energia creativa della mente e dell’agire.
Per esemplificare in termini analogici un modello che ridiventa oggi significativo, potremmo rifarci a quella grande esperienza di libertà del pensiero – che l’autorità di allora cercò di regolamentare, non potendone limitare il flusso dirompente e creativo – che nella sua prima fase fu la “scolastica”.
Già il termine è indicativo, perché rimanda non a una dottrina o, come accadde dopo (nel Sette e Ottocento), a una codifica enciclopedica delle conoscenze, ma a una modalità di fare scuola, a quella che Chenu con un’espressione efficace ha definito “ricerca collettiva della verità”. Una disciplina, potremmo anche dire, nel senso originale non di sapere già codificato, ma di rigore, di esercizio, attuato con metodo, fatica e sacrificio per la generazione del sapere, inteso come ricerca dell’autentico, del senso; in una parola: del vero. Nulla a che fare con quello che sono diventate oggi le “discipline”.
Di questa forma di scuola vorrei in un breve prossimo intervento delineare alcuni punti qualificanti, così riassumibili: 1) “testo”, ossia realtà e dato oggettivo come auctoritas; 2) ruolo attivo degli studenti e funzione facilitatrice del maestro/insegnante; 3) sapere come ricerca aperta e collettiva; 4) apprendimento come esercizio e azione che supera la distinzione di teoria e pratica. Tale forma si è concretizzata, in particolare, nella lectio e nella quaestio, che hanno strutturato i curricoli e le istituzioni di allora, università in primis.
Ovviamente non si tratta di fare un salto all’indietro, verso un passato idealizzato, che in realtà è stato anch’esso intriso di contraddizioni, bensì di trovare spunti per uscire dalle solite, stanche modalità cui rimaniamo ancorati nel pensare oggi il sistema. Ammesso che ci si pensi veramente.
(1 – continua)
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